Francesco Cavalli
Xerse
Libretto von Niccolò Minato
Uraufführung: 12.01.1654, Teatro Santi Giovanni e Paolo, Venedig
Intervenienti
Apollo,
Le Muse,
Momo, nel Prologo
Xerse, re di Persia
Amastre, al fine sua Moglie. Figlia del Re di Susia in habito d’huomo
Arsamene, fratello di Xerse
Romilda,
Adelanta, sorelle figlie d’Ariodate Prencipe d’Abido
Ariodate, Prencipe d’Abido Vassallo di Xerse
Eumene, Eunuco favorito di Xerse, e suo mastro di Campo
Aristone, vecchio Balio d’Amastre, nobile di Susa
Periarco, ambasciator d’Ottane Re di Susia
Eluiro, servo di Arsamene
Clito, paggio di Romilda
Sesostre,
Scitalce, Maghi
Capitano della Guardia di Xerse
Persiani della Guardia di Xerse
Damigelle di Romilda
Soldati d’Ariodate
Paggi di Periarco
Choro di spirti alla custodia del Platano
Choro di marinari nelle Navi su l’Hellesponto
Paggi che giocano
Guerrieri che combattono
L’Opera si finge in Abido Città su l’Hellesponto, dalla parte dell’Asia in tempo, che Xerse vi fa Piazza d’armi per la guerra che hebbe contro li Ateniesi.
Argomento
Di quello che si ha dall’historia
Xerse nacque di Dario, e di Atossa, che fu di Ciro Figliola, ond’hereditò la Corona di Persia. Hebbe molti fratelli, tra quali Arsamene, forse delli altri più caro. Si maritò ad Amastre Figlia d’Ottane Grande Persiano, che haveva seguite le parti di Dario nelle guerre contro li Magi. Successo alla Corona in luoco del Padre defonto proseguì l’espeditione contro li Ateni si già destinata dal padre, perché uniti con Aristagora di Mileto servo fuggitivo de‘ Persi abbruciassero Sardi Città della Persia, per comodo di passare in Europa. A questa impresa fece fabricare sopra l’Hellesponto sù le Navium lunghissimo ponte per cui passò con tutto l’esercito ma prima da fierissimi Venti e torbidissime procelle agitato l’Hellesponto si ruppero le navi, che sostenevano il Ponte, onde rimasto disfatto gli convenne rifarlo. Occorse anco a Xerse di trovare un Arbore di Platano, e per la sua bellezza l’adornò di gioie concinte d’oro, e da quello dovendo partire lasciò in sua guardia un’huomo immortale, Ita Herodotus Halicarnass. lib. 7 Histor.
Di quello che si finge
Per condure il Drama all’ultimo oggetto, che sono le nozze di Xerse con Amastre e aver modo come tesser intrecio diletevole, si fingono li seguenti verisimili.
Che Dario per gratitudine verso Ottane Nobile persiano, che lo haveva seguito contro li Magi li facesse dono della Corona di Susia constituendolo Signore di quel Regno.
Che li Mori havessero portate l’armi all’assedio di Susa metropoli della Susia, perché Ottane non havesse voluto concedere in moglie la figlia Amastre al loro Re; e che Ottane avesse invocato in suo aiuto Xerse, il quale vi fosse andato in persona con buon esercito, e che si fosse innamorato di Amastre, e ella ardentemente di lui.
Che stimolato dal Senato Persiano d’andar all’impresa contro li Ateniesi per vendicar l’ingiuria dell’incendio di Sardi, gli fosse convenuto lasciar a quell’impresa contro i Mori in aiuto d’Ottane un Generale, che fu Ariodate Prencipe d’Abido con l’esercito, e che per l’affetto, che portava ad Amastre a fine di sicurezza havesse persuaso Ottane a mandarla in Aracea altra Città di Susia, e che il Padre così havesse essequito. Che Xerse poi si fosse portato in Abido Città su l’Hellesponto per ivi radunar l’esercito, e passare in Europa come luoco più commodo d’ogn’altro per l’opera del Ponte, che faceva su le navi fabricar sopra l’Hellesponto.
Che in Abido fossero doi sorelle figlie del Prencipe Ariodate, da lui lasciato generale appresso Ottane; la maggiore nominata Romilda e la minore Adelanta: ambe innamorate di Arsamene fratello di Xerse, e che Arsamene alla maggiore corrispondesse: E che di Romilda Xerse pure s’innamorasse, giamai però corrisposto.
Che poi mentre Xerse, havendo eletto per Mastro di Campo Eumene Eunuco suo confidente, stava in Abido raccogliendo le genti per l’impresa d’Europa, si fosse fatta intorno a Susa giornata, e scacciatone l’inimico, e che Ariodate se ne ritornasse in Abido.
Che tratanto d’Aracca si fosse partita Amastre in habito d’huomo con Aristone vecchio suo Balio, e fosse venuta in Abido per vedere l’amato Xerse, dove gionta intende la Vittoria a favore d’Ottane suo padre contro li Mori, e scopre Xerse innamorato di Romilda.
Che da Susa Ottane mandasse un’Ambasciatore a Xerse a renderli gratie, che col suo aiuto havesse scacciati li Mori, e ad offerirli il Regno, di Susia, e la figlia in Consorte. Sopra questa Historia, con questi suppositi verisimili si finge il Drama.
Prologo
La scena rappresenta Boscareccia col Monte Parnasso.
Le Muse, Apollo sul Caval Pegaseo.
MOMO Prima di aprirsi la tenda.
Olà Signori, olà
l’Opra più non si fà,
la povera Virtù,
hor hora si partì,
che non trovando chi la premi più,
nol vuol servir più qui;
voleva almen di lode esser premiata,
pur si poca mercé gli fu negata.
Musica, e Poesia
sue Figliuole dilette
son con la Madre lor fuggite via,
insomma così fu,
e così interessata la Virtù;
ma voi già vi turbate,
e al partir v’accingete?
fermatevi, sedete,
non partite, ascoltate.
Aria.
Ciò da me sol detto fu,
per dir mal della Virtù;
più mi pasco del dir male,
che del nettare Divino,
hebbi sempre per destino
mormorar d’ogni mortale.
Ma voi Donne vezzose,
che fin’hor speso havete
co‘ i vostri fidi amanti
in discorsi d’Amor l’hore otiose,
hor ch’io qui giunto son perché tacete?
Forse di me temete?
Aria.
Ch’io censuri vostri amori,
donne belle non fia vero,
son parzial del Ciel Arciero,
compatisco i vostri ardori;
mal di voi mai non dirò,
che già mai con Amor lite non vuò;
che io mormori di voi, non dubbitate,
seguite, discorrete, amoreggiate.
Ma per qual causa mai tanto dimora
questa turba cannora,
che Sovra queste Scene
all’opre destinate ancor non viene?
Io consolar vorrei
le impazienze vostre o Donne belle,
se fussero bastanti i prieghi miei
ad involar di qua
questa tenda, nemica
della curiosità;
ma già che in questo luogo impera Amore,
per la faretra e l’arco,
e per gli strali ardenti
di sì possente Nume
benigno il vostro aiuto imploro o venti
voi con un soffio sol bramato, e caro
tosto involar potrete
quest’invido riparo
se dell’arciero Amore
al gran Nome temuto
ubedì Giove, e Pluto,
ond’arsero ambedue
alle facelle sue,
a secondare i desiderii suoi.
siate pronti anche voi
dall’antro Eolio
su sprigionatevi,
e senza indugio
hor qui portatevi,
senza più dimorar qui comparite
e questa Tenda agl’occhi altrui rapite.
Qui vengono i venti, e portano via la Tenda.
Consolatevi o belle,
né vi lagnate più,
che a miei supplici accenti
ubbedirono i Venti;
viva Amor viva sù sù.
Riverente io t’inchino
splendida Deità.
APOLLO.
Momo qui che si fà?
MOMO.
Le belle habitatrici
dell’Italico Reno,
in questo di Virtù dotto congresso
attendon curiose
il Drama a lor promesso.
APOLLO.
A me non giungon nuove
delle Felsinee Dame
le virtuose brame.
Del magnanimo Xerse,
che le Greche Falangi
assalì, soggiogò, vinse, e disperse
i successi guerrieri, e amorosi
in sì nobil Teatro io già disposi.
Aria.
Hor hor si vedrà,
che cruda beltà,
al fin disprezzò,
chi un Platano amò.
Sù, sù, caste sorelle,
figlie di Giove, e mie fidate Ancelle
i musici canori
all’opre desiate
ite, sollecitate.
CHORO di Muse a 3.
Siam pronte ad esequir ciò che tu voi
che son leggi temute i cenni tuoi.
Aria.
PRIMA MUSA.
Sù sù, al canto
SECONDA MUSA.
al suono
TERZA MUSA.
all’opra
con mirabile stupore
PRIMA MUSA.
la Virtù
SECONDA MUSA.
l’Arte
TERZA MUSA.
il valore
di noi tutte omai si scopra.
PRIMA MUSA.
Per far preda d’ogni core,
s’udiran in ogni lato,
regolate in dolce fiato
rimbombar voci canore.
SECONDA MUSA.
Per combattere col canto,
s’armeranno gl’Istromenti,
e a gl’armonici concenti
cederan le sfere il Vanto.
TERZA MUSA.
In mirar con strano affetto
arder Xerse infra gl’amori
resteranno tutti i cuori prigionieri del diletto.
PRIMA MUSA.
Gl’applausi saran miei.
SECONDA MUSA.
Mie le glorie saranno.
TERZA MUSA.
Io sola havrò di lode i gran trofei.
Aria.
APOLLO.
Hor hora si saprà
a chi si dovrà
si degna mercé.
CHORO di Muse a 3.
A me, a me, a me.
MOMO.
Hor io da queste scene
fuggo come dal foco,
che dove s’opra bene
il Dio mormorator non ha mai loco.
Aria.
APOLLO.
Su’l dorso leggiero
d’alato Destriero
io volo alle Stelle.
CHORO di Muse a 3.
Noi liete, e festanti,
tra Suoni, e tra Canti,
andiamo a regolar opre si belle.
APOLLO.
Dunque più non si tardi.
CHORO di Muse a 3.
Alla Musica, all’Opra, all’Armonia.
PRIMA MUSA.
Io parto.
SECONDA MUSA.
Io vado.
TERZA MUSA.
Io corro.
APOLLO.
E lieto io sia.
TUTTI.
Sù, sù, dunque sù, sù,
trionfi in queste Scene hor la Virtù.
Il Fine Del Prologo
Atto primo
Scena prima
Villaggio delitioso dietro le Mura della Città, con veduta di Bosco.
XERSE sotto un Platano.
Ombra mai fu
di vegetabile
cara, e amabile,
soave più.
Bei smeraldi crescenti,
frondi tenere, e belle,
di turbini, o procelle
importuni tormenti,
non v’affliggano mai la cara pace,
né giunga a profanarvi Austro rapace.
Mai con rustica scure
bifolco ingiurioso
tronchi ramo frondoso,
e se reciso pure
fia che ne resti alcuno, in stral cangiato,
o lo scocchi Diana, o ‚l Dio bendato.
Ombra mai fu
di vegetabile
cara e amabile,
soave più.
Scena seconda
Sesostre, Scitalce Maghi, Xerse, Choro di Spiriti.
SCITALCE E SESOSTRE.
Eccoci o Sire, ad inchinar quel piede,
cui fa sostegno de la Persia il Trono.
Da la nostra humiltà Xerse che chiede?
XERSE.
Udite: l’armi nostre
già minacciano straggi, e co‘ stendardi
diam segno a la Fortuna,
ch’è tempo homai, che si rovini Athene.
Quell’Athene superba,
ch’osò portar, ma non andremo inulti,
a Sardi nostra bellicosi insulti.
Poco resta d’induggio
a varcar in Europa: il nostro amato
Platano qui riman: di lui dovete
stringere co‘ vostri carmi amici spirti
a custodia incessante,
perché non sian da man profana, o avara
svelte le frondi, o pur rapiti i doni,
onde l’habbiam di nostra mano ornate.
Vi lascio: udiste: oprate.
SESOSTRE.
Ubidienti
darem l’opre in risposta.
SCITALCE.
Ecco il terreno
di caratteri stampo, e di possente
circolo imprimo.
SESOSTRE.
In giro
io tre fiate mi volgo, e l’Oriente
da la magica verga, e in un l’Occaso
minacciati oscurarsi homai rimiro.
SCITALCE.
Voi Tartaree possanze,
del mondo ardente, e de l’oscura Dite,
voi questa pianta a custodir venite.
SESOSTRE.
Da le tenebre
de l’horribile
cieco Tartaro
pur uscite al nostro dì.
SCITALCE.
Pluto, ed Hecate
vi disciolgano,
e venir lascin qui.
CHORO di Spiriti.
Per le torbide
vie de l’Etera
sopra i nubili
qui vedeteci pronti già.
SESOSTRE.
Noi vi lasciam, vostro dover sapete.
CHORO di Spiriti.
Al bel Platano
fida guardia si farà.
Scena terza
Elviro, Arsamene, Romilda, Adelanta sopra una loggia.
ROMILDA.
Tutti dormian ancor de l’Alba i rai,
all’hor, ch’io mi levai:
movo dormendo il piè:
parlo, né so di che.
ARSAMENE.
Caro Tetto felice,
albergo del mi amore,
dolce meta del piè: ma più del core.
Care mura beate
il mio vago tesoro
invide mi celate, e pur v’adoro.
Siam giunti Elviro.
ELVIRO.
Intendo.
ARSAMENE.
Dove alberga.
ELVIRO.
Seguite.
ARSAMENE.
L’Idol mio.
ELVIRO.
Dite pure.
ARSAMENE.
O se fortuna!
ELVIRO.
Così è.
S’allontana.
ARSAMENE.
Dove vai?
ELVIRO.
Ad appoggiarmi, ché di sonno i‘ cado.
ARSAMENE.
Vieni qui, dico. Ma sento
dilettoso concento.
ELVIRO.
Andiam vicini.
ARSAMENE.
Andiam.
ELVIRO.
Son di Romilda
questi villaggi?
ARSAMENE.
Sì: lasciami udire.
ELVIRO.
Così da la città poco discosti?
ARSAMENE.
Taci.
ELVIRO.
Vado a dormire.
ARSAMENE.
Non ti partir.
ROMILDA.
O voi.
ARSAMENE.
Quest’è Romilda.
ROMILDA.
O voi, che penate.
ELVIRO.
Da voi amata?
ARSAMENE.
Sì: non parlar più.
ROMILDA.
O voi, che penate
per cruda beltà,
un Xerse mirate.
Scena quarta
Xerse, Arsamene, Elviro, Romilda, Adelanta su la Loggia.
ROMILDA.
Qui si canta il mio nome?
Che di ruvido tronco acceso sta,
e pur non corrisponde
altro al su‘ amor, che mormorio di fronde,
di rami frondosi
lo sterile Amor,
con vezzi dannosi
punge i baci su ‚l labbro al baciator;
e‘ di Cupido un gioco
far che mantenga un verde tronco il foco.
XERSE.
Arsamene?
ARSAMENE.
Mio Sire.
XERSE.
Udiste?
ARSAMENE.
Udij.
XERSE.
Conoscete chi sia?
ARSAMENE.
Non io, Signore.
XERSE.
Io sì.
ARSAMENE.
Ahimè, che gelosia m’accora!
XERSE.
Che dite?
ARSAMENE.
Che amerei sentirla ancora.
XERSE.
II suo canto è un incanto,
che con magica forza
a catene d’amor l’anima sforza.
Per mia Dama la scelgo.
ARSAMENE.
Ahimè, che sento!
Ella è Romilda, è Principessa, e parmi,
che non convenga.
XERSE.
Mi diceste pure
non conoscerla: hor come?
ARSAMENE.
Sol la conosco al nome.
XERSE.
E al canto ancora.
Se Dama non convien, sarà mia sposa.
L’approvate?
ARSAMENE.
Non osa
la mia fé d’adularvi. A un Re non lice
erger al Trono, chi non è Regina.
XERSE.
Per Dama non convien, Sposa disdice;
nulla vi piace: è rigido il consiglio:
rammentate Arsamene,
ch’Amor ha poca legge, e men puntiglio.
Diretegli ch’io l’amo.
ELVIRO.
Nobile impiego invero.
ARSAMENE.
Io? non ho modo
di parlargli.
XERSE.
Cercate.
ARSAMENE.
Non so poi se potrò.
XERSE.
Perché?
ARSAMENE.
Sdegnate
parole, e forse pria d’udirmi.
XERSE.
Che?
ARSAMENE.
Già non vorrei: ma per modestia.
XERSE.
Intesi:
io gl’el dirò, ch’a parlar meglio appresi.
ARSAMENE.
Vanne barbaro, va,
forse pria, che tu parli il labbro indegno
Giove fulminerà:
l’insidiator disegno
di rubbar le mie gioie il Dio Tonante
forse non soffrirà.
Vanne, barbaro, va.
ELVIRO.
Signor? meglio è tacere.
ARSAMENE.
Stimi lecito, dì?
haver tu i miei trionfi, io le ferite?
Qual legge vuol così?
Ma che mi sian rapite
fuor di mano le mie prede, Amor, ch’è giusto
forse non sosterrà.
Vanne barbaro, va.
ELVIRO.
Vanne in mal punto
maligno, invidioso.
ARSAMENE.
Ecco Romilda: Stiamo a parte Elviro.
Scena quinta
Romilda, Adelanta, Arsamene, Elviro a parte.
ROMILDA.
Vibra pur ignudo Arciero
nel mio sen le tue faville,
sin, ch’io spero le pupille
del mio ben ver me pietose,
ne ritrose,
non m’affligge ardor cocente,
che corrisposto Amor fiamma non sente.
ARSAMENE.
O che piacere!
ADELANTA.
Che fiera gelosia!
ROMILDA.
Vuoti pur la sua faretra
nel piagarmi il cieco Amore,
sin, che impetra il mio dolore
dal mio ben costanza, e fede,
più non chiede,
né si duol di stral pungente
che corrisposto Amor fiamma non sente.
ARSAMENE.
Speme m’avviva.
ADELANTA.
Gelosia m’uccide.
ROMILDA.
Non resiste, Adelanta, a stral di foco
alma, qual che si sia robusta, e forte.
Lascia, lascia, ch’io parli
del mio amor.
ARSAMENE.
Del mio ben.
ADELANTA.
De la mia morte.
ROMILDA.
Coroniamo d’applausi
lo stral, che mi piagò,
sempre l’adorerò,
sin ch’io beva de l’aure
i vitali alimenti.
ARSAMENE.
O care voci!
ADELANTA.
O maledetti accenti!
ROMILDA.
Benedetto l’instante, in cui primieri
mi balenaro d’Arsamene i lampi,
eternò quel momento
il mio ben.
ARSAMENE.
La mia gioia.
ADELANTA.
Il mio tormento
ROMILDA.
Speri ch’ei sia mio sposo?
ADELANTA.
Io spero. Ah temo.
ARSAMENE.
Son io Romilda amata.
ADELANTA.
Ah sconoscente!
ROMILDA.
Idolo mio?
ARSAMENE.
Sarò tuo sposo, sì;
a dispetto.
ADELANTA.
Di me.
ROMILDA.
Di chi?
ARSAMENE.
Del Re.
ELVIRO.
Presto, presto Arsamene
Xerse viene.
ARSAMENE.
Empia sorte!
ADELANTA.
O bene a fé,
ROMILDA.
Di che temete?
ARSAMENE.
Lo saprete poi.
ELVIRO.
Sù veloce fuggite.
ROMILDA.
Sarà meglio celarvi.
ADELANTA.
Eh no, partite.
ELVIRO.
Su via l’ali a le piante.
ARSAMENE.
M’ascondo.
ROMILDA.
State cauto.
ARSAMENE.
E voi costante.
Scena sesta
Eumene, Xerse, Adelanta, Romilda, Arsamene, Elviro nascosti.
ROMILDA.
Luci belle che lampeggiano
soglion’anco fulminar,
bionde chiome testoreggiano,
ma poi sanno incatenar.
Rose, e gigli un seno infiorano
ma celato il serpe sta:
di quell’alme, che l’adorano
son tiranne le beltà.
XERSE.
Ecco apunto Romilda.
Come qui Principessa? al ciel sereno
forse a gl’inviti d’Arsamene usciste?
ROMILDA.
Egli non mi chiamò.
XERSE.
Parlovi almeno.
ROMILDA.
Sarebbe grave error? D’Amor la face.
XERSE.
Basta: non giova udir ciò che dispiace.
Restate addietro.
ADELANTA.
Che sarà?
ELVIRO.
Si scopre.
XERSE.
Romilda il Fato al Trono hoggi vi scorge,
amor v’ingemma il serto,
la Fortuna vel porge.
ROMILDA.
Ahi qual ver me
fera se’n viene.
ARSAMENE.
Non temete. Ahimè
che feci!
XERSE.
Peggior fera
sei di quella Arsamene: il dicon l’opre,
tu m’offendi nascosto, ella ti scopre.
ELVIRO.
Io che dovrò mai dire?
ARSAMENE.
Tolga il Ciel ch’io v’offenda: uscir repente
viddi la Principessa, e riverente
mi celai per modestia.
ELVIRO.
Io per dormire.
XERSE.
Anzi no; per molestia.
Pur li parlasti? ella nol nega.
ARSAMENE.
È vero
s’ella l’afferma. Io vo mentir più tosto.
XERSE.
E se lo dice il Re?
ARSAMENE.
Non so.
XERSE.
Mentite,
quasi vorreste dir?
ARSAMENE.
Non so se’l dite.
ROMILDA.
Credete almen ch’io non sapea.
XERSE.
Tacete.
Più di Scitico stral, più di torrente
veloce il piè togliete
da questa corte.
ARSAMENE.
Andrò, benché innocente.
ELVIRO.
A me non dice niente.
EUMENE.
Sire Arsamene non credea.
XERSE.
Non più.
EUMENE.
Chiedeteli perdon.
ARSAMENE.
Io non ho colpa.
EUMENE.
Deh, ch’ei resti; Signor.
XERSE.
Mentre prometta
non amar più Romilda il lascierò.
EUMENE.
Prencipe promettete.
ARSAMENE.
O questo no;
signor, la gelosia
meglio s’estinguerà col mio partire;
vado a vostro piacere; al mio morire.
XERSE.
Va seco Elviro.
ELVIRO.
Anch’io, lasso, bandito?
Uh, uh, quant’era meglio haver dormito.
Scena settima
Xerse, Eumene, Adelanta, Romilda, come immobile.
XERSE.
Hor che senza rival parlar mi lice
uditemi Romilda: io sono amante;
voi Regina di Persia: a me di questo
scettro regal, di queste,
che mi fascian il crine attorte bende
pretiose son più le mie ferite.
Romilda mi sentite?
Deh rimirate un Re,
che supplicante sta,
che vi chiede mercé,
che ricerca pietà.
Deh men superba una sol voce aprite.
Romilda mi sentite? E pur tacete?
Son pur de vostri lumi
spoglia, preda, trofeo; qual mai si vidde
a le prede, a i trionfi
rigido vincitor d’un guardo avaro
un’anima di bronzo, un cor d’acciaro,
come, come chiudete
sotto spoglia sì bella? E pur tacete?
e pur tacete ancora?
Dite un sì, dite un no, dite, ch’io mora,
è dover ch’io vi tolga
il modo di schernirmi: ahi sorte dura!
Anco il silentio contro me congiura.
Scena ottava
Eumene partendosi, Romilda, Adelanta.
EUMENE.
Romilda la Fortuna
vi chiama, voi dormite, e non vi cale
di stringer l’aureo crin: fuori di tempo,
come il parlar; così ‚l tacer è male.
ROMILDA.
Eumene dite al Re, ch’io l’amo.
EUMENE.
Sì?
ROMILDA.
Ch’io l’amorose fiamme ancor non sento
no, no; ditegli il ver, dite così,
che per lui vivo.
EUMENE.
Io vado.
ROMILDA.
Udite pria,
vivo priva del Sol degl’occhi miei.
EUMENE.
Non è ciò, ch’io credei.
ROMILDA.
Piano fermate,
sì, sì, ditegli: no; non gli parlate.
EUMENE.
Miseria de‘ viventi,
flagello del pensier,
insania de le menti,
perfidissimo Arcier, bendato Dio,
non havrai loco no nel petto mio.
ROMILDA.
Ho inhabili, Adelanta, a gl’usi loro
le potenze de l’alma e mal distinguo
nel tumulto importun, ch’il cor mi preme.
Dal foco il gelo, e dal timor la speme.
ADELANTA.
Eh risolvete.
ROMILDA.
Che?
ADELANTA.
D’amar il Re.
ROMILDA.
Voi fareste così?
ADELANTA.
Senza pensarci.
ROMILDA.
Risolvereste?
ADELANTA.
E come: Ho già risolto.
ROMILDA.
D’amare il Re?
ADELANTA.
D’amarlo sì: Arsamene.
ROMILDA.
Non sete amante.
ADELANTA.
È ver; che tu nol sai.
ROMILDA.
Temo che l’idol mio
a dispetto del Re voglia seguirmi.
Eccolo ahimè!
ADELANTA.
L’ardire
e ‚l rischio è grande in ver: fatel partire.
Scena nona
Elviro, Arsamene, Romilda, Adelanta.
ELVIRO.
Eccolo qui Signor.
ARSAMENE.
Dove? il timore
fa che travedi.
ELVIRO.
A fé
ella è Romilda, e lo credevo il Re.
ROMILDA.
Dove? Dove Arsamene?
ARSAMENE.
A dirvi addio mio bene.
ROMILDA.
Così a Xerse ubbidite?
Partite, oh Dio, partite;
col labbro, che mi parla,
con l’occhio, che mi vede
il vostro Re tradite.
Partite, oh Dio, partite.
ARSAMENE.
Romilda? al vostro core
i nodi Amor strinse per me si poco,
che in si brev’hora li scioglieste? il foco,
che mi giuraste eterno estinto fu?
ROMILDA.
Partite, oh Dio, non m’affliggete più.
Non sentite sù ‚l fiato
palpitarmi la voce?
Gioia, di cui pavento,
diletto, ch’a voi nuoce
piacer con mio tormento
non ammetto, non voglio, itene, sù
partite, oh Dio, non m’affliggete più.
ARSAMENE.
Han dunque le corone
la smemorata qualità di Lete?
E col solo sperarle han de l’oblio
la più forte virtù?
ROMILDA.
Partite, oh Dio, non m’affliggete più.
ARSAMENE.
Ch’io parta eh? dispietata! ahi ben m’avvedo;
che pria d’esser Regina
sapete esser tiranna.
Parto; e già non vi chiedo
il cor, che s’ha i flagelli
ceder lo deggio de le Furie, e quale,
qual mai Furia di voi più cruda fu?
ROMILDA.
Arsamene? intendete.
ARSAMENE.
Tacete, oh Dio, non m’affliggete più.
ROMILDA.
Arsamene? Arsamene?
ADELANTA.
Eh lasciatelo andar.
ROMILDA.
Chiamalo Elviro.
ELVIRO.
E che volete?
ROMILDA.
Io gli vo‘ dir che l’amo,
e che male il mio dir inteso fu.
ELVIRO.
Partite, oh Dio, non m’affliggete più.
ROMILDA.
Così parte adirato, e non l’offesi.
ADELANTA.
È un pretesto.
ROMILDA.
Perché?
ADELANTA.
Per mancarvi di fé.
ROMILDA.
Me crede infida.
ADELANTA.
E fors’egli è incostante.
ROMILDA.
Io ‚l credo assai fedele.
ADELANTA.
Io poco amante.
ROMILDA.
Cadrei, se così fosse, essanimata.
ADELANTA.
Se così fosse io vivrei beata.
Amor se frangi un dì
il rigor di quell’ingrato,
se quel no si dispietato
si converte in dolce sì,
caro Amor, soave Dio
ti vo‘ sempre albergar nel petto mio.
Se tu del mio ribel
pieghi un dì la rigidezza,
se vedrò quella bellezza
men feroce e men crudel,
caro Amor, soave Dio
tu la gioia sarai del petto mio.
Scena decima
Cortile.
Amastre in habito d’huomo, Aristone.
AMASTRE.
Sempre costante in me
di mia fé sarà il tesoro
fino ch’io moro,
ne ritrar da‘ ceppi il piè
mi faranno i miei martiri,
so ch’il piacer d’amor costa sospiri.
Ogn’hor benedirò
quando entrò l’alato Dio
nel petto mio.
Con lo stral che lo piagò,
non verrà ch’il cor s’adiri,
so ch’il piacer d’amor costa sospiri.
ARISTONE.
Hor ditemi: chi sete?
AMASTRE.
Il Padre?
ARISTONE.
Nol sai.
AMASTRE.
Eh rispondete.
ARISTONE.
Amastre.
AMASTRE.
Ottane Re di Susia.
ARISTONE.
E di virili
spoglie, perché vestite?
AMASTRE.
Nol sai?
ARISTONE.
Eh dite, dite.
AMASTRE.
Per venire a veder l’amato Xerse,
di cui m’accesi all’hor, che del mio Regno
portò l’armi in aiuto
contro il Re Moro assalitor irato,
perché delle sue nozze i‘ fei rifiuto.
ARISTONE.
Al Genitor è noto,
che voi Xerse cercate?
AMASTRE.
Non sai?
ARISTONE.
Non vi sdegnate.
AMASTRE.
Non sai che all’hor, che dal Persian Senato
contro i Greci invitato
Xerse partì, per meglio assicurarmi
de gl’eventi incertissimi di Marte,
Ottane il Padre mio
fé condurmi in Aracca?
ARISTONE.
Onde non sa,
che di là voi partite?
Hor chi son io?
AMASTRE.
Che chiedi?
ARISTONE.
Eh non stupite.
AMASTRE.
Aristone mio Balio, e mio fedele.
ARISTONE.
Se così è ver partiamo.
AMASTRE.
E veder Xerse?
ARISTONE.
Non si deve.
AMASTRE.
Io voglio
fermarmi.
ARISTONE.
Eh no signora.
AMASTRE.
O Dio, perché?
ARISTONE.
Saremo conosciuti.
AMASTRE.
Eh certo no.
ARISTONE.
Hor hora lo saprò; chi sete?
AMASTRE.
Amastre.
ARISTONE.
Non mi fermo. Chi siamo ogn’un saprà,
ch’a voi lo chiederà,
di finger vi scordaste, e nome e stato.
AMASTRE.
E teco vuoi, ch’io finga?
ARISTONE.
E se con altri
così faceste?
AMASTRE.
Non temer; dirò,
che siam duo peregrini
scorti da rio Destin di Stelle irate.
ARISTONE.
Ma se ve lo scordate? ecco vien gente.
AMASTRE.
Ritiriamci.
ARISTONE.
Tacete,
non parlate sapete.
Scena undicesima
Ariodate, Choro di Soldati, Amastre, Aristone a parte.
ARIODATE.
Già la Tromba
che le straggi risuonò,
le vittorie a noi rimbomba.
Pugnammo, amici, e stette
la Vittoria per noi, di Susa i piani
a gl‘ estinti Affricani
sono angusti a formar bastevol tomba,
già la tromba, ecc.
AMASTRE.
Dunque è vinto il Re Moro? O noi felici!
ARIODATE.
S’obligò la Fortuna
Ottane da quel dì, che l’armi Perse
invitò a sua difesa, il Fato stesso
vuol, ch’al Fato di Xerse
quel d’ogn’altro soccomba.
Già la tromba, ecc.
ARISTONE.
Ecco Xerse.
AMASTRE.
O che luce! o che splendore!
Adoralo mio core.
Scena dodicesima
Xerse, Eumene, Ariodate, Choro di Soldati, Amastre, Aristone a parte.
XERSE.
V’abbraccio, Ariodate; il vostro ferro
sempre porta vittorie.
ARIODATE.
Il vostro Fato
le dona a chi vi serve
più volte provocato
venne al fine a giornata il Re de Mori,
formidabile, horrenda
fu la battaglia; in sì brev’hora il campo
fu seminato de‘ nemici estinti,
che ben parean le morti
prevenir le ferite,
furo le straggi più, che i colpi, e lenta
la Vittoria non venne.
Questi di nobil Moro illustri figli,
e questi per valor, per nobiltade
ne l’Etiopia insigni
a voi presento, e insieme
da l’armi Perse trionfate prede
ecco le regie insegne al vostro piede.
EUMENE.
Sta col vostro valore
confederata la Fortuna, e ‚l Fato.
XERSE.
Del vostro merto e de le vostre glorie
saran memorie: hor dite
come portossi Ottane?
ARIODATE.
A cento vite
troncò lo stame la sua spada, e mai
si stancò la sua destra.
EUMENE.
Si mostrò dunque degno
de li aiuti di Xerse.
XERSE.
Abbiam diletto
de le vittorie sue, del vostro merto.
E ’n premio de‘ disaggi, e de‘ disturbi,
che diamo a questa vostra
città, col farne Piazza a l’armi nostre
per l’impresa d’Athene,
Romilda vostra figlia
havrà sposo reale
de la stirpe di Xerse, à Xerse eguale.
ARIODATE.
Così arditi fantasmi
nel pensier non ammetto.
XERSE.
Ite, così prometto.
ARISTONE.
E noi partiam signora?
AMASTRE.
Fermiamci un poco ancora.
Scena tredicesima
Xerse, Eumene, Amastre, Aristone a parte.
XERSE.
Queste vittorie, Eumene,
augurano vittoria anco al mi‘ amore.
AMASTRE.
Hai già vinto, mio core.
EUMENE.
Tal volta cor di Donna è più feroce,
che barbaro spietato, o Moro atroce.
AMASTRE.
Costui da l’amor mio cerca ritrarlo.
XERSE.
Angelica beltà
non nutre crudeltà, non ha fierezza.
AMASTRE.
E se l’havesse, stral d’amor la spezza.
EUMENE.
Oggetto a voi più grato
ben saprei rammentarvi.
AMASTRE.
Oh scelerato.
XERSE.
Io l’amo, e più serene
altre luci non viddi.
AMASTRE.
O caro bene!
EUMENE.
Vo‘ dirlo piano; voi tradite Amastre.
AMASTRE.
Che disse mai?
XERSE.
Non voglio
pensar d’altra beltà.
AMASTRE.
O vera fedeltà?
XERSE.
Forse i rai di quel sol che m’abbagliò.
Dovrò ceder ad altri?
AMASTRE.
Come? a chi?
EUMENE.
Forse sì.
AMASTRE.
Certo no.
EUMENE.
Dirò liberi sensi;
a sponsali indecenti
de l’esser vostro v’applicate.
AMASTRE.
Menti.
Scena quattordicesima
Aristone, Amastre, Xerse, Eumene.
XERSE.
Che fate, ahimè?
EUMENE.
Chi parla? o là.
XERSE.
Chi sete?
ARISTONE.
Forastieri, Signor; di novità
curioso desio vagar ci fa.
XERSE.
A chi mentita diè costui, ch’è teco?
ARISTONE.
A me, ma per discorso, e non per sdegno.
AMASTRE.
Io dissi, che –
ARISTONE.
Disse, ch’il vasto Eufrate.
AMASTRE.
Che l’amor che portate –
ARISTONE.
Ah sì, a le vostre genti.
AMASTRE.
E degno. –
ARISTONE.
Oh Dio, lascia parlar a me.
e degno d’un sì grande, e nobil Re.
XERSE.
Che d’amor, che di genti, e ché d’Eufrate?
sciocchi mi rassembrate.
ARISTONE.
De‘ sempre vari oggetti
i diversi fantasmi
rendon del Peregrin confusi i detti.
EUMENE.
Sire, lasciam costor. Come imponeste
sin’ch’il Marte de l’Asia
passi a invader l’Europa
a vicenda tra lor squadre d’armati
denno finger battaglie, acciò da l’otio
non fia vinto l’ardire;
ma de la pugna il loco
dove Signor, sarà? parmi opportuno
il Teatro Reale.
XERSE.
Apunto: in quelle
pugne feroci del guerriero ardore
contemplerò la ferità d’Amore.
XERSE ED EUMENE.
Del Nume guerriero
più crudo ferisce
il piccolo arciero.
EUMENE.
Col dardo
d’un guardo,
col vezzo, che scocca
dolcissima bocca
fa colpo più fiero.
XERSE ED EUMENE.
Del Nume guerriero
più crudo, etc.
EUMENE.
Con strale fatale
all’hor, che diletta
Cupido saetta
feroce, severo.
XERSE ED EUMENE.
Del nume guerriero,
più crudo, etc.
Scena quindicesima
Aristone, Amastre.
ARISTONE.
Ahi Principessa, ed in qual grave errore
trasportovi il furore?
AMASTRE.
Indecenti sponsali
le mie Nozze reali?
ARISTONE.
Eh dite piano? È tempo di partire.
AMASTRE.
Sì presto ahimè!
ARISTONE.
Poiché finir le guerre
per levarvi d’Aracca
Ottane manderà;
dunque torniamo là.
AMASTRE.
Su via partiamo: al lito
legno appresta spedito,
intan’io qui dimoro,
vedrò forse di nuovo il Sol, ch’adoro.
ARISTONE.
E restarete sola?
AMASTRE.
Amor sta meco.
ARISTONE.
Cauta non è la compagnia d’un cieco.
AMASTRE.
Va, non temer.
ARISTONE.
Voi qui
vi fermarete?
AMASTRE.
Sì.
ARISTONE.
S’alcun chiede chi sete,
ditemi che direte?
AMASTRE.
Dirò, che son d’Egitto.
ARISTONE.
No, ch’il candor vi mente.
AMASTRE.
Dirò, che nacqui sotto l’Orsa algente.
ARISTONE.
No, ch’a curiosità si moverebbe.
AMASTRE.
Basta; dirò ch’ei parta.
ARISTONE.
No, che si sdegnarebbe.
AMASTRE.
Gli dirò, che si fermi.
ARISTONE.
Ed a qual fine? A fé partir non voglio.
Darete in qualche scoglio.
AMASTRE.
Non temer no, s’ei non vorrà partire,
io di qui partirò.
ARISTONE.
O bene! E dove poi vi ritroverò.
AMASTRE.
Va dico e non temer, sano consiglio
mi trarrà di periglio.
ARISTONE.
Vado con gran tormento.
Signora vi rammento.
AMASTRE.
Intesi.
ARISTONE.
Udite
a chi si sia non date più mentite.
Scena sedicesima
Clito, Amastre.
CLITO.
A fé mi fate ridere
amorosi lascivetti;
d’ogni Dama, che mirate
v’infiammate;
come, come in cento affetti
un sol cor si può dividere?
A fé mi fate ridere.
AMASTRE.
È scaltrito costui; certo è di corte.
CLITO.
V’imprigiona, v’incatena
ogni crin, ch’un poco adorno
vada intorno;
da beltà veduta a pena
vi lasciate il cor uccidere.
A fé mi fate ridere.
Ma chi è quel, che m’ascolta?
Guerrier, chi sei?
AMASTRE.
Non so.
CLITO.
Dimmi il nome.
AMASTRE.
Non voglio.
CLITO.
Dì, dove vai?
AMASTRE.
Non posso.
CLITO.
D’onde vieni?
AMASTRE.
Non deggio.
CLITO.
Dì, che vorresti.
AMASTRE.
Nulla.
CLITO.
Chi ricerchi?
AMASTRE.
Niuno.
CLITO.
Sei pazzo?
AMASTRE.
Che t’importa?
CLITO.
Se non ci pensi tu, men ci pens’io,
così ‚l Ciel ti mantenga addio, addio.
AMASTRE.
A fé questa riuscì.
O buon vecchio Ariston se fossi qui.
Regie stelle, che fatali
risplendeste à miei natali,
con luci sdegnate.
Non mirate
le pazzie d’un cor errante;
cieco Amor, fa cieco Amante.
Quanto può vezzoso sguardo!
Trasse pur con simil dardo
il picciolo imbelle
da le stelle,
fatto armento il Dio tonante;
cieco Amor, fa cieco Amante.
Scena diciassettesima
Arsamene, Elviro.
ARSAMENE.
Ecco la lettera Elviro.
ELVIRO.
Sete risolto?
ARSAMENE.
S’ho da star tra i vivi.
ELVIRO.
Ch’a Romilda la porti?
ARSAMENE.
O scenderò tra i morti.
ELVIRO.
Che parlar li volete
altro non li scrivete?
ARSAMENE.
No.
ELVIRO.
Vado Signore; io l’ho pensata bene.
State lieto Arsamene.
Dite, ch’io vada con felicità.
ARSAMENE.
Così t’auguro, va.
ELVIRO.
Lasciate far a me.
Voglio servirvi a fé.
ARSAMENE.
Innamorato cor
trafitto dal rigor
di perfida beltà,
s’a morte avanza
altra vita non ha, che la speranza.
Il luminoso dì
del mio gioir sparì,
e un’ombra di seren
sola m’avanza:
altra vita non ho, che la speranza.
Scena diciottesima
Ariodate, Romilda, Adelanta.
ADELANTA.
Romilda vostra figlia
havrà sposo Reale
de la stirpe di Xerse, a Xerse uguale.
Con queste istesse voci
parlomi il re.
ROMILDA.
Signor non so, non oso
pensar qual sia lo sposo.
ADELANTA.
Signor credete a me,
sarà lo stesso Re.
ARIODATE.
No, figlia, no; il pensier tropp’alto sale
altra cosa è l’istesso, altra l’eguale.
S’ei non fosse Arsamene
fratel di Xerse.
ROMILDA.
Non saprei da vero.
ARIODATE.
Ma tanto non s’inalza il mio pensiero
de la stirpe di Xerse? a Xerse uguale,
faccia Giove immortale.
Scena diciannovesima
Adelanta, Romilda.
ADELANTA.
Faccia che siate sposa al vostro Xerse.
ROMILDA.
Mio Xerse non è.
ADELANTA.
Meno Arsamene.
ROMILDA.
Egli sì, perché l’amo.
ADELANTA.
Egli no, perché parte essule, errante.
Perdete un Re, per un perduto amante
ROMILDA.
Perduto amante? e come?
ADELANTA.
D’altro strale, Arsamene il cor ferito,
si scuserà sopra del Re; le fiamme
in tanto Xerse estinguerà; sarete
priva d’ambi gli Amori; ah correggete
il pensier vaneggiante,
perdete un Re, per un perduto amante.
ROMILDA.
Sbarbicar dal terreno alta radice
lente scosse non ponno, e vi si chiede
violenza improvisa. Odio Arsamene,
amo il Re; che direte
Adelanta?
ADELANTA.
Che sete
prudente; dunque hora, ch’il Re bramate,
io chiederò Arsamene.
ROMILDA.
E che? l’amate?
ADELANTA.
Non l’amo; l’amerò.
ROMILDA.
Sì tosto v’accendete?
ADELANTA.
Ogni cosa ha principio.
ROMILDA.
Ma l’amor mio non havrà fine; intesi,
intesi adesso; udite
s’impresso è ‚l vostro cor di questo amore,
pregate Giove che vi cambi il cuore.
ADELANTA.
Ch’io preghi Giove che mi cambi il core?
Lo pregherò ben prima
che te con giusto stral perfida opprima.
Invida del mio bene,
un Re tu prendi a sdegno
per togliermi Arsamene?
Fai rifiuto d’un Regno,
pregiudichi a te stessa
per tradire il mio amore?
Ch’io preghi Giove, ecc.
Scena ventesima
Reggia d’Abido.
Clito, Paggi di Corte, che giocano.
CLITO.
Che gioco gradito
è quel de la Palla
si gira, si varia
con gusto infinito
quel globo per l’aria
tenendolo a galla,
che gioco gradito
è quel de la Palla.
Affligger quel globo
con colpi frequenti
è pur gran contento
con moto spedito
a un stesso momento
si gioca e si balla,
che gioco gradito
è quel de la palla.
Ma cessate o compagni
di più tener fra‘ le percosse vostre
quel globo prigioniero.
Qui con passo leggiero
il moto girate
e snelli danzate
sì che renda il brillar di vostre piante
di più moti capace un solo instante.
Qui segue il Ballo de‘ Paggi.
Fine dell’atto primo
Atto secondo
Scena prima
Sala Reggia.
Amastre, Elviro vestito da vendi fiori.
AMASTRE.
Speranze fermate;
sì tosto fuggite?
Ancora non sete
speranze tradite.
Voi dunque m’havete
si poca pietade?
Speranze fermate.
Pensieri sperate;
sì presto temete?
Ancora ingannati
pensieri non sete.
Già d’esser sprezzati
a torto giurate.
Pensieri sperate.
ELVIRO.
Ah, chi voler fiora
de bella giardina.
Giacinta indiana,
Tulipana, Gelsomina.
Ah, chi voler fiora
de bella giardina.
Argo, ch’havea cent’occhi
non scoprirebbe a fé, ch’io son Elviro.
AMASTRE.
Costui si ferma: ahimè!
ELVIRO.
Misero sarei morto,
se del foglio, ch’io porto
sapesse il Re.
AMASTRE.
Che parla egli di Re,
ELVIRO.
Ma credo, ch’Arsamene,
ne l’onde, e ne l’arene
i pianti spargerà,
e che per moglie al fine il Re l’havrà.
AMASTRE.
Il Re? per moglie? chi? Oh Dei, che sento,
ELVIRO.
Xerse però dovrebbe,
sposa di Regio Sangue, e non vassalla
sceglier de le sue nozze al sommo honore.
AMASTRE.
Dunque i‘ sono schernita. Ah traditore!
ELVIRO.
Ahimè! chi voler fiora,
de bella giardina.
Non vedo alcuno, e parmi haver udito
a gridar traditore;
ma questi scherzi son del mio timore.
AMASTRE.
Ah Xerse infido amante!
ELVIRO.
Pur anco il cor mi trema.
AMASTRE.
Così tradisci la mia fé costante!
Amico?
ELVIRO.
Ah ci fui colto.
Ah chi voler fiora
de bella giardina.
AMASTRE.
Ei finge altro linguaggio; è messo, o spia.
Una parola, o là.
ELVIRO.
Gelsomina, Tulipana.
AMASTRE.
Ma non vo dir d’haverlo udito pria.
ELVIRO.
Giacinta indiana.
AMASTRE.
Ferma, o là, dico a te.
ELVIRO.
Da mia, che cercar?
Voler fiora comprar?
AMASTRE.
No, ma senti. Che Xerse homai sia sposo
mormoran liete voci in questo dì;
vorrei saper di chi.
ELVIRO.
Di chi star,
e perché dimandar?
AMASTRE.
Viator curioso e ciò ti basti.
ELVIRO.
Ariodate de chista
città signor, che star a Re vassallo
haver figlia Romilda, e Re voler
chista sposar, e dir,
se nù sposar morir.
AMASTRE.
Ma di Romilda il seno
arde al fuoco del Re.
ELVIRO.
No, de fratello,
ch’aver nome Arsameno.
AMASTRE.
E questo forse i dolor suoi li scrive?
ELVIRO.
Ahimè! chi voler fiora
de bella giardina.
AMASTRE.
Dimmi?
ELVIRO.
Nù saper altro.
Tulipana, Gelsomina.
AMASTRE.
Speranze fuggite
adesso, che sete
speranze tradite.
Ritogliti, o Fortuna
quelle, che fin da ‚l dì de‘ miei natali
preparasti al mio piè, soglie reali;
a un’alma disperata
si convengono più balze romite,
speranze fuggite, ecc ….
Xerse, barbaro Xerse,
dunque perché li dispergessi a i venti
tutti posi in tua mano i miei contenti?
Ah si fier non flagella
impetuoso gel piagge fiorite
speranze fuggite, ecc.
Scena seconda
Elviro, Clito, Adelanta.
ELVIRO.
Pur al fin s’è partito
ecco un maggior disturbo; arriva Clito.
Ah, chi voler fiora.
CLITO.
Hai tu bei nastri? o là ferma, ch’io veda.
ELVIRO.
E che star nastro? Quale sorta fiora?
Ei mi conosce hor hora.
CLITO.
Nastro non sai, che sia?
ELVIRO.
Star viola, o narciso?
CLITO.
Ah, ah mi muovi, a riso; un nastro è questo.
ELVIRO.
Chisto? mi à ti donar.
Addio, andar, andar.
CLITO.
Gratie ti rendo.
ELVIRO.
Eh va‘ in buon’hora.
CLITO.
Addio.
Sai, che non voglio far.
ELVIRO.
Non parte più.
CLITO.
Voglio darlo alla mia vaga vezzosa.
ELVIRO.
Anco Rosa donar.
Addio, andar, andar.
CLITO.
Sarò del viver mio per tutti i giorni
memore del favor.
ELVIRO.
Temo, ch’ei torni.
ADELANTA.
Figlio del Genio Amor.
Che legge non hai,
che nudo t’en vai,
che vuoi dal mio cor?
ELVIRO.
Ecco Adelanta a fé.
ADELANTA.
Scherzi col mio desir
Aligero ignudo
a dir, che quel crudo
mi debba gradir.
ELVIRO.
Ah chi voler fiora
de bella giardina.
ADELANTA.
O là vien qui. Co‘ fiori
nutre il veleno suo vipera ancora.
ELVIRO.
Voler Giacinta, voler Gelsomina.
ADELANTA.
Di strano, che cos’hai?
Strani son anco del mio cor i guai.
ELVIRO.
Dimandar, respondir.
ADELANTA.
Tieni Amaranti?
Convien l’amaro nome a i mesti amanti.
ELVIRO.
Chisto no haver.
ADELANTA.
Havresti un vago Croco,
spiegherà l’ardor mio color di foco.
ELVIRO.
Chisto no haver. Ma mi chi star?
ADELANTA.
Non so.
ELVIRO.
Voler sapir?
Dimandar, rispondir.
ADELANTA.
Chi sei?
ELVIRO.
Chi son? Mi conoscete adesso?
ADELANTA.
Tu quivi? O sventurato!
ELVIRO.
Gran rischio è ver? hor hora
aggiusto ogni rovina
ah chi voler fiora
de bella giardina.
ADELANTA.
II ciel ti guardi bene; hora che porti?
ELVIRO.
Lettere d’Arsamene
a l’amata Romilda.
ADELANTA.
A me le porgi
io le darò, tu parti, fuggi, vola.
ELVIRO.
Ecco a voi le consegno, ella dov’è?
ADELANTA.
Sta nelle stanze sue scrivendo al Re.
ELVIRO.
Al Re, ma che li scrive?
ADELANTA.
Ch’in lui spera, in lui vive.
ELVIRO.
E d’Arsamene?
ADELANTA.
Punto non li sovviene.
ELVIRO.
Così dunque s’inganna
un fedel‘ amator? empia, tiranna?
disleale, infedele,
aspe, tigre crudele.
ADELANTA.
Parti Elviro, ch’il Re già s’avvicina.
ELVIRO.
Ah chi voler fiora
de bella giardina.
Scena terza
Adelanta, Xerse, Eumene.
XERSE.
Aprasi questo foglio;
s’al mio intento s’adegua, usar lo voglio.
XERSE ED EUMENE.
Fortunato quel cor,
che vive in libertà;
che del bambino Amor
seguace non si fa.
Misero chi cadé
d’amor in servitù,
sciolto da lacci il piè.
Gioir non speri più.
EUMENE.
Ecco Adelanta.
ADELANTA.
Ecco opportuno il Re.
XERSE.
Di quel foglio Adelanta,
lice saper gli arcani?
EUMENE.
Saran forse amorosi.
ADELANTA.
È ver; ma strani.
XERSE.
Più ne son curioso, e volentieri
li leggerei.
ADELANTA.
Negar non deggio, ma.
EUMENE.
Ma che?
ADELANTA.
Oh Dio temo.
XERSE.
Di che temete?
ADELANTA.
Mi perdonate?
XERSE.
Sì.
ADELANTA.
Dunque leggete.
Deh seconda l’inganno ignudo arciero.
XERSE.
Scrive Arsamene.
ADELANTA.
È vero.
Lettera.
XERSE legge.
All’hor, che ne l’Ibero ascoso il Sole
scintilleranno in Ciel l’auree facelle,
verrò notturno, ove tall’hor mi suole
il raggio balenar di vostre stelle.
Ivi a dispetto di maligna sorte,
o sarò vostro, o pur sarò di morte.
XERSE.
A chi scrive Arsamene?
ADELANTA.
A me.
XERSE.
A voi?
ADELANTA.
Vi sdegnate?
XERSE.
Stupisco, non mi sdegno;
non ama egli Romilda?
ADELANTA.
Ella ben l’ama; ei finge, acciò sdegnosa
de‘ nostri amori non disturbi il nodo;
ella de l’ombra, io de la luce godo.
Bell’inganno se riesce.
XERSE.
Siamo felici, o cor?
EUMENE.
Strana avventura.
ADELANTA.
Pur da gelosa cura
l’hore essenti non passo; e ben desio,
e voi ne prego, o Sire,
che publico Himeneo lo faccia mio.
XERSE.
Farollo in questo die;
o vostro sposo, o preda a l’ire mie.
ADELANTA.
Sire, ei dirà, che pria sarà nud’ombra,
fredd’ossa, poca polve, e spirto errante,
che lasci d’esser di Romilda amante.
Ma voi, ch’il ver sapete
a le menzogne sue nulla cedete.
XERSE.
Ite; lasciate il foglio a me per prova.
ADELANTA.
Bella frode, se giova.
Scena quarta
Eumene, Xerse, Romilda.
EUMENE.
Ecco Romilda.
XERSE.
A fé giunge opportuna
ingannata Romilda
questo foglio leggete;
dite poi s’Arsamene amar dovete.
ROMILDA.
Leggo.
XERSE.
E di giusto sdegno
tutta non avvampate?
ROMILDA.
A chi scrive?
XERSE.
A la sua cara Adelanta.
ROMILDA.
Dov’è la sopra carta?
XERSE.
Qual si costuma a terra
quando l’aprì gettolla; io già non mento.
ROMILDA.
Non m’uccider tormento.
XERSE.
Che farete?
ROMILDA.
Piangente ogn‘ hor vivrò.
XERSE.
L’amerete?
ROMILDA.
L’amerò.
XERSE.
Se bene ei vi tradì?
ROMILDA.
Empia sorte vuol così.
XERSE.
Se bene ei v’ingannò
l’amerete?
ROMILDA.
L’amerò.
XERSE.
Un’anima sì dura
Cieli tempraste sol, per mia sventura.
ROMILDA.
L’amerò non fia vero.
Amante traditor, sorella indegna?
empia fortuna, scelerate stelle,
non fulminate il perfido ribelle
mentitor, menzognero?
L’amerò? non fia vero.
Figlio di Dario tu? fratello a Xerse?
Ho che non chiudi in seno anima humana,
o che Libico serpe, o Tigre Hircana,
o ti produsse, o t’allatò spietato,
barbaro, menzogniero,
l’amerò? non fia vero.
Scena quinta
Hellesponto col ponte su le navi.
EUMENE.
Humanità infelice!
Scopo de le miserie,
scherzo de la fortuna: i primi uffici
del nascente mortal son pianti, e doglie,
e perché questa vita è sempre amara
pria sospirar, che respirar impara.
Altri l’inopia affligge,
altri de le grandezze opprime il pondo,
è tutto alfine una miseria il mondo.
E s’altro ch’il tormenti
con rigido tenore
non trova l’huom, lo tiranneggia Amore.
Xerse il mio Rege è grande,
è regnante, e monarca, e ciò non basta,
ch’un cieco ignudo ogni suo ben contrasta.
Non ha pace, non ha bene
chi ritiene
dentro il petto le scintille,
che due lucide pupille
sanno accendere.
Chi si lascia un giorno prendere
d’un bel crin fra le catene
non ha pace, non ha bene.
Quando il core fu piagato
del bendato
nudo arcier de l’aureo strale
ogni schermo è lieve, e frale
per resistere.
Ei non sa dal mal desistere,
e chi cede a le sue pene
non ha pace, non ha bene.
Scena sesta
Aristone, Amastre.
ARISTONE.
Lasciate questo ferro.
AMASTRE.
Io vo‘ morire.
ARISTONE.
Tanto credete a un vil plebeo? che dunque
de gl‘ affetti reali
interpreti saranno i Giardinieri?
che da le lor follie
andate a mendicar sciocco martire?
lasciate questo ferro.
AMASTRE.
Io vo‘ morire.
ARISTONE.
Dunque a rapir a Cloto
di vostra vita il filo
immaturo destin sforzar volete?
AMASTRE.
Si ch’io voglio morir.
ARISTONE.
Ahimè tacete.
Voi donzella reale
sù ‚l margine d’un lito
così morir? de la mordace plebe
favola vi farete.
AMASTRE.
Eh lascia ch’i‘ m’uccida.
ARISTONE.
Ahimè, tacete,
e di me che dirassi?
de la mia fede incanutita homai
tutto il preggio si perde. Amastre di Dio,
vi mova il vostro honore, vi mova il mio.
Del Genitor languente
figuratevi i pianti,
le disperate note;
il Caucaso non ha sì dura cote,
ch‘ al suo dolor non si frangesse.
AMASTRE.
Hai vinto,
va ch’io cedo a la tua
pietade insidiosa. Andiamo.
ARISTONE.
E dove?
AMASTRE.
A Xerse.
ARISTONE.
Et a qual fine?
AMASTRE.
A dirli almeno
ch’è un traditor, un scelerato, un’empio.
Andiamo.
ARISTONE.
Oh Ciel, che fate?
uditemi, fermate.
Scena settima
Arsamene, Elviro.
ARSAMENE.
Chi tel disse?
ELVIRO.
Adelanta.
ARSAMENE.
E che ti disse?
ELVIRO.
Ciò, che v’ho detto già,
che Romilda ama il Re,
ch’a lui scrivendo sta.
ARSAMENE.
E non s’apre il terreno?
e l’iniqua non porta
voragine profonda a Pluto in seno?
Così ti disse?
ELVIRO.
Così appunto.
ARSAMENE.
Come?
ELVIRO.
Come v’ho detto già.
ARSAMENE.
Che Romilda ama il Re?
Che a lui scrivendo sta?
Adelanta tel disse?
ELVIRO.
Ella Signore.
ARSAMENE.
Ne l’Hircania colà Belva più fiera
di Romilda inhumana
qual mai si ritrovò?
Adelanta te ‚l disse? e non scherzò?
ELVIRO.
Me ‚l disse, e non scherzò.
ARSAMENE.
Sciocco è ben chi crede a femina,
che del vento è lieve più,
genio mutabile,
pensiero instabile,
cor senza fé
non dà mercé,
stringe l’aura, e l’onde semina
chi li presta servitù.
Sciocco è ben chi crede a femina, ecc.
ELVIRO.
Fuggiam di Xerse l’ire.
ARSAMENE.
Non cerca di fuggir chi vuol morire.
Scena ottava
Eumene, Xerse, Choro di Marinari.
EUMENE.
La bellezza è un don fugace,
che si perde in pochi dì,
il suo sereno,
come baleno
tosto fuggì.
Chi s’accese, e ne languì.
Speri pure nel tempo edace
la bellezza è un don fugace.
L’alterezza d’un bel volto
si castiga con l’età,
il fresco, il verde
tosto disperde
fior di beltà,
e struggendo ogn’hor si va,
come al vento esposta face.
La bellezza è un don fugace.
XERSE.
Eumene?
EUMENE.
Alto Signor.
XERSE.
Vediamo il Ponte.
EUMENE.
Ecco in onta de flutti;
giunto Sesto ad Abido.
XERSE.
Un lito a l’altro
accomuna il passaggio; e ‚l mar infido
machina inutilmente ondoso oltraggio.
CHORO di Marinai.
Viva Xerse lunga età,
che cavalcabili quest’onde fa.
Viva Xerse lunga età.
XERSE.
Per passar in Europa
è già in ordine il tutto, in Asia ancora
non voglio ch’aspettiam la terza Aurora.
CHORO di Marinai.
Queste fiamme, ch’ardon già
mostrano il giubilo,
ch’in sen ci sta.
Viva Xerse lunga età.
XERSE.
Quanto di queste, Eumene,
la fiamma del mio cor, è più vorace.
Ma qui giunge Arsamene.
EUMENE.
Costanza pertinace! Ama Adelanta,
Finge d’amar Romilda,
e per celar il ver con l’apparente,
seco stesso crudel, al bando assente.
Scena nona
Xerse, Arsamene.
XERSE.
Arsamene? ove andate?
ARSAMENE.
A ber l’onda di Lete,
sol per scordarmi che Fratel mi sete.
XERSE.
Vuò parlarvi, fermate.
ARSAMENE.
Letal portento è che favelli un mostro.
XERSE.
Cessi lo sdegno vostro.
ARSAMENE.
Cessi vostra empietà.
XERSE.
Voglio sposarvi
a colei che bramate.
ARSAMENE.
Ancora mi beffate?
XERSE.
So di qual fiamma ardete,
lessi le vostre note.
ARSAMENE.
Ah che Romilda
il foglio palesò.
XERSE.
So quanto è forte
il nodo, che vi stringe, e stimerei
colpa il disciorlo; e solo
col nasconderlo a me, foste a voi stesso
cagion di duolo.
ARSAMENE.
Et hor, che lo confesso?
E che già lo sapete?
XERSE.
Per consorte l’havrete.
ARSAMENE.
Hora lasciate,
ch’io vi baci la destra.
XERSE.
Tanto l’amate?
ARSAMENE.
Più che l’alma mia.
XERSE.
E nol diceste pria? Lieti saremo
ambi in un stesso dì
io sposo di Romilda.
ARSAMENE.
Et io di chi?
XERSE.
D’Adelanta, ch’amate.
ARSAMENE.
Ah m’ingannate
fin hor, che mi diceste?
XERSE.
Di Romilda intendeste?
ARSAMENE.
D’Adelanta parlaste.
XERSE.
So ch’amate Adelanta.
ARSAMENE.
Amo Romilda.
XERSE.
So che fingete.
ARSAMENE.
So, che mi schernite.
XERSE.
Eh non fingete più.
ARSAMENE.
Dunque Romilda
a me non concedete?
XERSE.
Eh, che non la volete.
ARSAMENE.
La voglio, e l’otterrò,
e se del cielo havrò nemici i Numi
le forze di Cocito invocherò.
XERSE.
Non la volete, no.
ARSAMENE.
E s’havessi nemico anco l’Inferno
in onta de le stelle, e de gl’Abissi
la voglio e l’otterrò.
XERSE.
So che fingete, so.
Scena decima
Adelanta, Xerse.
ADELANTA.
V’inchino eccelso Re.
XERSE.
Negò pur hora
Arsamene costante
di non esservi amante.
ADELANTA.
Voi che diceste, o Sire?
XERSE.
Che so che per Romilda è finto il foco,
ei si diè ’n preda a l’ire.
Credete a me; Romilda è l’adorata,
voi sete l’ingannata
de l’empio scelerato;
non l’amate l’ingrato.
ADELANTA.
Non amarlo, e non morire
io non so come potrò!
Quell’ardore
ch’ho nel core
come estinguer io non so,
che mai cessi il mio languire
la fortuna destinò,
non amarlo, ecc.
Se schernita,
aborrita
da quel crudo ogn‘ hor sarò,
starà meco il mio martire
fin che l’aure spirerò.
Non amarlo, ecc.
Se ben crudo,
sempre ignudo
di pietà lo troverò,
inimico al mio desire
così ancor l’adorerò,
Non amarlo, ecc.
Scena undicesima
ELVIRO.
Me infelice! ho smarrito il mio Signore,
ma mi confesso reo? son pazzo a fé:
egli ha smarrito me.
Forse per questo ponte ei se n’andò;
no, ch’io no ‚l vedo no.
Ma qual adombra il Ciel repente nubilo
l’onde fremono,
l’aria sibila.
Vacilla il ponte, e fa danzar il piè,
pietà, pietà Nettuno: ahimè, ahimè!
tutto si spezza il ponte, e non poss’io
tornar al lito: oh Dio!
Cieli s’il mio morir punto v’incresce
cangiatemi in un pesce,
mar di qua, mar di là,
questo, che mi sostien lacero avanzo
tosto s’affonderà,
chi mi soccorre? chi per carità?
I lampi m’acciecano,
i Folgori m’assordono,
quante montagne d’acqua
sorgon di qua; e di là:
chi mi soccorre? chi per carità?
Scena dodicesima
Cortile.
ARIODATE.
O ben sparsi sudori! o ben di Marte
non temute fatiche!
O felice per me guerra de‘ Mori!
onde lieto ritorno,
e l’Asia di trofei spargo, e adorno.
Chi brama
di gloria, di Fama
memoria lasciar,
ne‘ campi guerrieri
sen vada a pugnar.
Un’animo forte
acquista vita in disprezzar la Morte.
Un core,
che cerca splendore,
che fugge viltà,
sen‘ vada tra l’armi,
che preggio n’havrà,
a nobil desire
è per la patria sua gloria il morire.
Scena tredicesima
Amastre, Xerse.
AMASTRE.
Morirò: volete più?
Stelle crude al mio martir
s’il mio duolo a raddolcir
vostri rai non han virtù.
Morirò: volete più?
Se tradita la mia fé
se non posso aver mercé
di costante servitù
morirò; volete più?
XERSE.
Gran pena è Gelosia.
AMASTRE.
Lo sa ‚l mio core.
XERSE.
Per altri son sprezzato?
AMASTRE.
Et io schernita.
XERSE.
Aspra sorte!
AMASTRE.
Empie stelle!
XERSE.
O Romilda crudel!
AMASTRE.
Xerse ribelle!
XERSE.
Chi parla?
AMASTRE.
Un infelice.
XERSE.
Ei rassomiglia
tutto ad Amastre. Chi sei tu?
AMASTRE.
Io sono
uno, che v’ha servito.
XERSE.
In guerra forse.
AMASTRE.
In guerra e fui ferito.
XERSE.
Vuoi tornar a servirmi?
AMASTRE.
Ci penserò.
XERSE.
Perché?
AMASTRE.
Perché vo servir, senza mercé.
XERSE.
Che? mi trovasti ingrato?
AMASTRE.
Son rimasto ingannato.
XERSE.
Chiedi la tua mercede.
AMASTRE.
Altri l’usurpa.
XERSE.
Ti darò cosa eguale
AMASTRE.
Non serve; e non l’havete.
XERSE.
E che vorresti?
AMASTRE.
Ciò, che a me dovete.
XERSE.
Ecco ‚l mio Bene: parleremo appresso.
Torna, che per brev’hore
tengo affar, che m’importa.
AMASTRE.
Ah traditore.
Scena quattordicesima
Xerse, Romilda, Amastre, Capitano della Guardia.
XERSE.
Romilda, e sarà ver, ch’al foco mio
non si distempri il vostro gelo? in vano
pianger mi lasciarete?
AMASTRE.
Oh che inumano!
XERSE.
Habbiatemi pietà.
AMASTRE.
Qual tu l’hai meco.
XERSE.
E vostro questo core.
AMASTRE.
Avvertite signore
ciò, che dovete a me non date altrui.
XERSE.
Va, che sarai premiato.
AMASTRE.
Non m’intende l’ingrato.
XERSE.
Il mio destin reale
si piega al vostro fato.
AMASTRE.
Ah disleale!
XERSE.
Se cedete al mio amor, di Regie fasce
il crin vi circondate.
AMASTRE.
Signor non v’impegnate,
che forse quel ch’è mio non disponeste.
XERSE.
Quante istanze moleste!
Havrai premio a suo tempo:
io premiai sempre servitù fedele.
AMASTRE.
Non m’intende crudele.
XERSE.
Romilda, mia Regina esser dovete,
che dite? Rispondete.
ROMILDA.
L’alto grado mi rende
confusa, e meritarlo
prima desio, che d’ottenerlo aspiri.
XERSE.
No: risolvete pure.
ROMILDA.
Datemi luogo ch’io ci pensi.
XERSE.
Errate,
vo‘ conchiuder adesso.
Porgetemi la destra.
AMASTRE.
Ah no fermate,
ch’il Re v’inganna.
XERSE.
Che ardimento è questo?
o‘ là costui prendete: a noi dinanzi
tosto condotto sia.
AMASTRE.
M’ucciderete pria.
XERSE.
Vo‘ che ragion mi renda
di questa sua temerità importuna.
O‘ che strano disturbo.
ROMILDA.
O che fortuna.
AMASTRE.
Addietro vil canaglia.
ROMILDA.
O là cessate.
Libero vada quel Guerriero.
SOLDATO.
Il Re
prigion lo chiede.
ROMILDA.
Et io libero il voglio.
CAPITANO della Guardia.
È l’arbitrio del Re maggior ch’il vostro
e l’amor, che a voi porta
ben gli tolse del cor la libertà,
ma non l’autorità.
ROMILDA.
Ubbidite; tacete.
CAPITANO della Guardia.
Egli da noi
fia che ragion ne voglia.
ROMILDA.
A me la chieda.
CAPITANO della Guardia.
Contro di noi s’accenderà di sdegno.
ROMILDA.
Io v’assicuro: dite,
ch’io v’imposi così.
CAPITANO della Guardia.
Dunque ubbidiamo
ite pur non temete: e voi partite.
AMASTRE.
Le fortune, la vita, e l’esser mio
in eterno obligate.
ROMILDA.
Ite non vi fermate,
che non venisse il Re,
se non quanto mi dite
perché ardiste di lui sturbar le voglie?
AMASTRE.
Perché so, ch’ei vi sforza, e so, ch’Amore
di fiamme più gradite
v’accende il sen.
ROMILDA.
Partite.
E pur è ver, che chi mi segue i‘ fuggo,
per chi mi fugge i‘ moro.
Tradita sono, e ‚l traditor adoro,
amante non è
chi cede al furor
d’irata fortuna,
tutto quel, che Pluto aduna
più perfido rigor
non vince il mio core,
non turba mia fé,
chi teme il dolore,
amante non è.
Ardito nocchier
sa vincer del mar
l’ondose procelle,
quante può serpi rubelle
Tesifone vibrar
quest’alma sostiene
costante in sua fé,
chi teme le pene
amante non è.
Scena quindicesima
Clito, Elviro.
CLITO.
T’accolsi meco in nave, e ti salvai
da l’impeto de flutti,
hora lieti cantiamo.
ELVIRO.
Che canteremo?
CLITO.
Sai
la canzonetta de la Donna avara?
ELVIRO.
La so.
CLITO.
Cantiamla dunque
e così lieto passaremo il dì.
ELVIRO.
Cantiamo sì, sì.
CLITO E ELVIRO.
A labbra di Rose,
a guancie vezzose
riguardo non ho.
Amanti vi dirò
sensi liberi e chiari,
se voi volete baci, io vuò danari.
A chioma pomposa
di polve odorosa
non pongo pensier
chi dunque vuol goder
questo precetto impari
se voi volete baci, io vuò danari.
Scena sedicesima
Adelanta.
E te pur vero, o core,
che persisti costante,
e sei d’un marmo, e sei d’un aspe amante!
Come per abrucciarti
può trovar tanto ardor chi ardor non sente?
A che da selce algente
nascon le mie facelle:
questo è vostro rigor; v’intendo, o Stelle.
Luci mie, che miraste
quel bel sol, che m’abbagliò,
voi che semplici cercaste
il crin d’or che mi legò,
voi che del mio penar la colpa havete
di dover lagrimar non vi dolete.
Occhi miei voi che godeste
Lo splendor d’una beltà,
ch’al mirarla par celeste,
ma infernale al duol che dà,
voi che del mio penar la colpa havete
di dover lagrimar non vi dolete.
Scena diciassettesima
Periarco, Aristone, Amastre.
PERIARCO.
Beato chi può
lontan da le Corti,
goder quelle sorti,
ch’il Ciel li donò.
Cercando si va
i fior tra le spine,
e in tanto di brine
ci sparge l’età.
ARISTONE.
Lo sguardo lagrimoso
il debil fianco annoso
dove rivolgo più?
Amastre, ove sei tu?
PERIARCO.
Chi favella d’Amastre? Egli mi sembra
sì, ch’è desso Aristone?
AMASTRE.
E chi mi chiama? o Dio?
che impaccio! Fingerò. Per dove n’andate?
ARISTONE.
Signor, a chi parlate?
PERIARCO.
Mi conoscete?
ARISTONE.
No, signor.
PERIARCO.
Io sono
Periarco di Susa, amico vostro
vengo d’Ottane, genitor d’Amastre
ambasciator a Xerse.
ARISTONE.
Amastre, Susa, Periarco, Ottane,
nomi non conosciuti,
come nuovi li sento;
né voi certo più viddi, oh quant’io mento!
PERIARCO.
Non siete voi Balio d’Amastre?
ARISTONE.
Errate.
Mi prendete in iscambio.
PERIARCO.
Voi non sete Ariston?
ARISTONE.
Ch’io sappia no.
PERIARCO.
Eh sete d’esso, e mi burlate.
ARISTONE.
A fé
rider mi fate: addio.
PERIARCO.
Ascoltatemi un poco.
ARISTONE.
Eh voi prendete a gioco
farmi perder il tempo. Ahimè, respiro.
PERIARCO.
Resto in dubbio, se sogno, o se deliro.
AMASTRE.
Pur ti trovo Ariston.
ARISTONE.
Di qui partiamo.
PERIARCO.
Chi gli parla?
AMASTRE.
Perché?
ARISTONE.
Siam rovinati; ahimè,
PERIARCO.
Che miro? Amastre è questa.
ARISTONE.
Vi dirò.
AMASTRE.
Dimmi adesso.
PERIARCO.
Mente l’habito e ‚l sesso!
ARISTONE.
Oh Dio venite.
PERIARCO.
V’inchino Principessa.
ARISTONE.
Hor non m’udite.
AMASTRE.
Che veggio ahimè!
ARISTONE.
Negate.
PERIARCO.
Deh, Principessa, qual avversa sorte
vi scinge estrano arnese? eccomi pronto
se fa d’uopo a la morte.
AMASTRE.
Io Donna? Io Prencipessa?
ARISTONE.
Oh questa è bella.
PERIARCO.
Deh riverita Amastre
meco non simulate.
AMASTRE.
Qual’è ‚l mio nome?
PERIARCO.
Amastre.
AMASTRE.
Eh delirate.
PERIARCO.
Tutto m’honora ciò, che dite. Io vengo
ambasciator d’Ottane
ad offerir le vostre nozze a Xerse.
AMASTRE.
Xerse vuol altra sposa.
ARISTONE.
Andiamo Prencipessa; ahimè che dissi!
PERIARCO.
O pur diceste il vero.
ARISTONE.
Ah, ah, ch’io scherzo,
con il vostro pensiero.
PERIARCO.
Sogno? veglio? che fo?
Vaneggio sì, o no?
Scena diciottesima
Xerse, Periarco, Eumene.
XERSE.
Quante son d’Amor le pene
il mio cor homai lo sa,
di Cocito fra l’arene
duol più fiero non si dà.
PERIARCO.
Ecco Xerse. De‘ Persi alto monarca
v’inchina il Re di Susa, e vi desia
dal Ciel salute; e questo
real foglio v’invia.
XERSE.
Le sue memorie
a noi son care, e liete,
il foglio è di credenza.
L’ambasciata esponete.
PERIARCO.
Egli da l’armi vostre
riconosce gl‘ allori,
che riportò de‘ Mori; e immortali
ed obblighi, e memorie
ne registra nel core, e ne gl’annali.
XERSE.
Molto dobbiamo a queste
dimostranze cortesi.
PERIARCO.
Altre maggiori
a loco più secreto
ne rimetto, e riserbo.
XERSE.
Io sarò pronto
sempre ad udir: ditemi intanto. Amastre
la vostra Principessa ov’è? che fa?
PERIARCO.
Oh Dio, che deggio dir? forse lo sa:
no, che saper no’l dè.
XERSE.
Dite che fa? dov’è?
PERIARCO.
Io fingerò. Signor, duolo improviso
Il cor m’assale e sento
quasi svenirmi.
XERSE.
Entriam: nulla temete
da dotta man celere aita havrete.
Scena diciannovesima
Romilda, Eumene.
CHORO di Soldati, che combattono.
La Fortuna è variabile,
incostante il Dio d’Amor
questo cangia suo tenor,
quella è più de l’onda instabile,
sol costante ne‘ miei guai,
né Fortuna, né Amor si cangia mai.
I Pianeti in Ciel si girano,
altro alcun fermo non sta;
ostinata ferità
l’altrui stelle ogn’hor non spirano;
solo ferme ne‘ miei guai
né le stelle, né ‚l Ciel si cangian mai.
O sete qui? direte a Xerse, Eumene,
che a un Re non si conviene
l’insidiar Donzelle.
EUMENE.
Spesso chi dice il ver perde l’amico.
ROMILDA.
Ditegli, ch’io lo dico.
EUMENE.
Chi presume dar legge è un cor amante
potrà tener a fren l’aura volante.
Mai ricetto
nel mio petto
al tuo strale, Amor, darò
da bei sguardi
vibra dardi
quanto sai, non amerò.
A faville
di pupille
il mio cor non arderà,
a fierezza
di bellezza
l’occhio mio non piangerà.
Ma che più mi trattengo? or mai gl’armati
son pronti a i finti assalti,
che del Regio Teatro
per studio militare il Re prefisse,
eh più non si conviene
che qui ritardi Eumene.
Scena ventesima
Teatro Reggio.
Clito, Xerse, Ariodate, Periarco, Eumene, Romilda, Adelanta, Capitano della Guardia, Choro di Soldati.
CHORO di soldati.
Dispiegate lo strato,
le sedi componete,
presto, non vi perdete, hor hora Xerse
qui verrà per vedere
di sue feroci schiere
gl’essercitij di Marte: e guida seco
l’ambasciator di Susa:
che non resti confusa, o inosservata
cosa alcuna vedete:
presto non vi perdete.
XERSE.
Quivi sediamo. Entrin le schiere Eumene,
hor de‘ nostri guerrieri
vedrete a finte prove
la destrezza, il coraggio, e l’ardimento
nel bellico cimento.
EUMENE.
Arcieri
guerrieri
scoccate
pugnate.
Fingete d’havere
a fronte le schiere
de l’hoste nemica.
Ben suole a fatica
trionfo seguire
chi studia il ferire
a vincer impara
gl’assalti più fieri.
Arcieri ecc …
Qui segue il combattimento.
Arrestatevi o prodi,
o valorosi, o forti
con prospere sorti
nel giro d’un dì
pugnando così
de l’armi nemiche
d’Atene colà
vittoria s’havrà,
tra questi sudori
s’inalzan gl’allori,
s’inaffian le palme,
s’avvezzano l’alme
a nobili glorie:
con arte maestra
il brando s’addestra:
da finte vittorie
ne seguano poi
trionfi più veri.
Arcieri ecc.
Qui si torna a combattere.
XERSE.
Non più guerrieri, assai
di coraggio, e valore saggio mirai,
se colà tra nemici
contro l’armi d’Atene
pugnerete così
vinceremo sì, sì.
PERIARCO.
Signor, ammiro l’arte
d’insegnar le vittorie al vostro Marte.
EUMENE.
De‘ perigli fin hor de le battaglie
dimostraste gl’essempi
hor con liete carole
de la vittoria festeggiate i segni,
e i trofei de la mano il piè disegni.
Qui segue il ballo.
XERSE.
Andiam: nel giorno de‘ trionfi nostri
havrete premio poi
degno del vostro ardir, degno di voi.
ROMILDA.
Son le guerre d’Amor più fiere assai.
ADELANTA.
Guerreggia anco il mio cor, né vince mai.
Fine del secondo atto
Atto terzo
Scena prima
Giardino.
Romilda, Arsamene, Elviro.
ROMILDA.
Non mi dir, che ti distruggi
in acerba servitù,
che non voglio udirti più.
Già t’ho detto fuggi, fuggi,
non amar chi non ha fé:
ostinato mio cor non dir di me,
non mi dir, ch’è gran durezza
adorar, chi ti tradì:
tu sei quel, che vuoi così.
Già t’ho detto spezza, spezza
le catene, e sciogli il piè:
ostinato mio cor non dir di me.
ARSAMENE.
Lasciami.
ELVIRO.
Verrà Xerse.
ARSAMENE.
Io non ci penso.
ELVIRO.
Saremo carcerati,
cercate il precipitio.
ARSAMENE.
Uso de disperati.
ROMILDA.
Che rumore? chi sete?
ARSAMENE.
Chi son? chi son? strana richiesta! Io sono.
ROMILDA.
Troppo lo so, fermate.
ARSAMENE.
Nol sapete, ascoltate.
Son un scoglio di fé, da l’onde insane
de la perfidia vostra,
agitato, percoso: un’elce annosa,
lacera, e dissipata
da gl’Aquilon malvaggi
de la vostra fierezza.
ROMILDA.
Oh Dio tacete:
ascoltate chi sete.
Un’angue sete, un’aspe,
una fera, una furia,
un traditor ribelle.
Per pena Amor, non per pietà, le stelle
tardano a fulminarvi,
parto, che più non posso
sostener di mirarvi.
ARSAMENE.
Ite, ch’il Re v’aspetta.
ROMILDA.
Ite pur voi,
che vi aspetta Adelanta.
ARSAMENE.
Che Adelanta? Infedele!
ROMILDA.
Che Re? Tigre crudele!
ARSAMENE.
Eh non fingete, so che al Re scriveste.
ROMILDA.
Io scrissi? oh dispietato!
Ad Adelanta voi scriveste, ingrato.
ARSAMENE.
Bel pretesto inumana.
ROMILDA.
Elviro il sa.
ARSAMENE.
Adelanta il dirà.
ROMILDA.
Che potrà dir?
ARSAMENE.
Che scritto a Xerse havete
che sposa homai li sete.
ROMILDA.
V’ingannate Arsamene.
ARSAMENE.
Elviro è qui.
ROMILDA.
Ecco Adelanta viene.
Scena seconda
Adelanta, Romilda, Arsamene, Elviro.
ADELANTA.
Ahi scoperto è l’inganno.
ROMILDA.
Opportuna giungete.
ADELANTA.
Io torno a dietro,
se voi v’ingelosite.
ROMILDA.
Ah perfida! venite. Elviro?
ARSAMENE.
Elviro?
ELVIRO.
Signor.
ARSAMENE.
Vien qui, rispondi.
ELVIRO.
A chi?
ARSAMENE.
A Romilda.
ELVIRO.
Son bandito.
ROMILDA.
Egli sfugge
d’offendervi col vero.
ARSAMENE.
O là dico?
ubbidisci.
ELVIRO.
Ubbidisco.
ROMILDA.
Che ti disse Adelanta allhor, ch’il foglio
d’Arsamene li desti?
ELVIRO.
Signor deh fate, che lo chieda a lei,
ch’io parlar non vorrei.
ROMILDA.
Ditegli, ch’ei dirà ciò, che volete.
ARSAMENE.
Parla, e vanne colà.
ELVIRO.
O me infelice poi, s’il Re lo sa.
Signora dite voi che mi diceste?
ADELANTA.
Che Romilda ama il Re.
ARSAMENE.
E che volete più?
ROMILDA.
Dunque ingannate.
ADELANTA.
Piano; non v’adirate: udite pria.
Elviro, con un foglio
d’Arsamene, venia;
io per recarlo a voi
lo presi, e perché il servo
ostinato, partir non si volea,
se voi pria non vedea,
acciò non visto ritogliesse il piè
finsi, che foste voi scrivendo al Re.
ROMILDA.
Zelo troppo affettato.
ELVIRO.
Io non li ho già parlato.
ADELANTA.
Xerse mi sopragiunse, e de la carta
i trattati mi chiese; io per oppormi
a motivi di sdegno
finsi a me scritto il foglio, e d’Arsamene
amata mi chiamai:
questo titolo solo infruttuoso
per giovarvi usurpai.
ROMILDA.
Fatte quanto sapete
Arsamene il mio ben non mi torrete.
ADELANTA.
Sentenza iniqua, e ria!
ARSAMENE.
Hor, che dite Romilda?
ROMILDA.
Hor che dite Arsamene?
ARSAMENE.
Che v’amo.
ROMILDA.
Che v’adoro.
ARSAMENE.
Che sol vivo per voi.
ROMILDA.
Che per voi moro.
ARSAMENE, ROMILDA.
M’amerete?
V’amerò sempre sì, sì.
ADELANTA, ARSAMENE E ROMILDA.
Per vivere
ARSAMENE.
felice
ROMILDA.
beata
ADELANTA.
dannata
ADELANTA, ARSAMENE E ROMILDA.
mi basta così.
ROMILDA ED ARSAMENE.
Se pietose mi girate
pupille adorate,
il vostro splendor,
di sorti adirate
non temo il furor.
Ad essermi benigne, o luci belle,
da‘ vostri raggi impareran le stelle.
A DUE.
M’amerete?
V’amerò sempre, sì, sì.
ADELANTA, ARSAMENE E ROMILDA.
Per vivere
ARSAMENE.
felice
ROMILDA.
beata
ADELANTA.
dannata
ADELANTA, ARSAMENE E ROMILDA.
mi basta così.
ROMILDA.
Ecco in segno di fé la destra amica.
Adelanta mirate.
ADELANTA.
Ecco Xerse: che fate?
ROMILDA.
O che sciagura!
ARSAMENE.
Oh disturbo!
ADELANTA.
O ventura!
ELVIRO.
Signor v’aspetterò fuor de le mura.
ROMILDA.
Nascondetevi.
ADELANTA.
Anch’io m’asconderò.
ROMILDA.
Fermatevi, non vo.
ARSAMENE.
Siate fida avvertite.
ROMILDA.
Se qualche fera vien voi non uscite.
Scena terza
Xerse, Romilda, Adelanta, Arsamene nascosto.
XERSE.
Romilda, che vi mosse
a dar la libertade a quel Guerriero,
ch’io volea prigioniero?
ROMILDA.
Il suo valor, che con un ferro solo
ribattea mille colpi.
XERSE.
A voi, c’havete
merto d’incatenar lo stesso Xerse,
non so disdir, che poi
scioglier potiate i prigionieri suoi.
Già sete mia Regina.
ROMILDA.
Signor, volo tropp’alto
è infallibil ruina.
XERSE.
Deh non negate più;
sì dura crudeltà
è vitio, non virtù.
Deh non negate più.
ROMILDA.
Negherò sempre
ciò, ch’affermar non mi concede il Fato.
XERSE.
Uso d’ogni ostinato,
scusarsi col Destin. Lacera, e svelta
da gl’Austri furiosi al fin si vede
quercia, ch’a l’aure molli
non si piega, non cede:
intendete Romilda?
ROMILDA.
Ah troppo intesi.
XERSE.
Non partirò, se pria. Basta. Che dite?
ROMILDA.
Che del mio Genitor vi vuol l’assenso.
XERSE.
E poi, che dubbio v’è?
ROMILDA.
Ubbidirò al mio Re.
XERSE.
Vado a chiederlo: intanto
mi stillo in gioia.
ROMILDA.
Et io mi struggo in pianto.
Scena quarta
Arsamene, Romilda, Adelanta.
ARSAMENE.
Ubbidirò ‚l mio Re?
Così dite Romilda? E che non dite
son sposa d’Arsamene? Empia, v’intendo:
il fulgido tesor de l’aureo serto
e v’abbaglia, e vi compra: hor dite, ingrata,
che del Tanai lontan l’onda gelata
a ber io vada, onde s’ammorzi il mio
foco sprezzato: sù ditelo: ahimè,
presto, ubbidite il Re.
ROMILDA.
Ahi chi toglie a‘ miei lumi
del sol i raggi d’oro?
Ahimè cado, ahimè moro.
ARSAMENE.
Sostenetela.
ADELANTA.
Oh Dei, m’intenerisco.
ARSAMENE.
Come l’angue del Nilo
si duole, hor che m’ha ucciso
Romilda.
ROMILDA.
Fermatevi
non mi toccate! Xerse
sovvenirmi dovrà,
quando m’ucciderà.
ARSAMENE.
Tanto m’odiate?
ROMILDA.
Tanto v’adoro: addio vi lascio.
ARSAMENE.
Addio,
vi fuggo.
ROMILDA.
Dove andate?
ARSAMENE.
Dove vuol fiera sorte.
E voi dove?
ROMILDA.
A la morte.
ARSAMENE.
Eh dite al Trono
che promesso vi fu.
ROMILDA.
Vi lascio, addio, non mi vedrete più.
ARSAMENE.
Ne‘ mostri della Libia,
ne le fere d’Hircania,
vostre imagini vere,
ben vi potrò vedere.
ADELANTA.
Arsamene, Arsamene? Io posso darvi
un’anima costante, un cor fedele;
non mi sente il crudele.
Dammi, Amor, la libertà,
che non voglio più languir
per tirannica beltà,
che non ha de‘ miei sospir
una stilla di pietà.
Dammi Amor la libertà.
Se da i ceppi uscir potrà
questo cor, che preso fu,
ad amar non tornerà,
che la prima servitù
hebbe troppa crudeltà.
Dammi, Amor, la libertà.
Scena quinta
Periarco, Eumene.
PERIARCO.
Pur conosco Ariston, conosco Amastre.
E pur ambi li viddi,
o vederli mi parve,
se di spetri, o di larve
non mi scherne, o delude ombra apparente,
o mi tradiscon gl’occhi
o d’espresso delirio è rea la mente.
EUMENE.
Quel, ch’il Re vuole è legge,
e quel, ch’è legge, è giusto.
PERIARCO.
Ove, Signore,
con quest’alto diadema?
EUMENE.
A Romilda, che Xerse hoggi destina
de la Persia Regina.
PERIARCO.
Cieli! che sento mai? Xerse dov’è?
EUMENE.
Quand’il lasciai, fuor de la Regia uscia.
PERIARCO.
Deggio parlarli pria.
EUMENE.
La figlia del suo Re
forse offerir in moglie a Xerse brama.
Ma Xerse più non l’ama,
e s’un tempo l’amò
incostante di fé pensier mutò
sete pazze a innamorarvi,
miserelle
donne belle;
tocca a l’huomo l’adorarvi,
voi perdete del decoro,
se cercate,
se pregate,
a noi tocca supplicarvi.
Sete pazze a innamorarvi.
Scena sesta
Xerse, Ariodate.
XERSE.
Come già v’accenammo
sposo del nostro sangue, a piacer nostro
destiniamo a Romilda.
ARIODATE.
Il grado humile
de l’esser mio, vostra bontade eccede.
XERSE.
Così da noi richiede
il vostro merto, e ‚l valor vostro; hor dite
l’approvate? assentite?
ARIODATE.
Bramo solo ubbidirvi.
XERSE.
Udite dunque.
Verrà tra poco ne le vostre stanze
persona eguale a noi: del nostro sangue.
Fate che vostra figlia
per suo sposo l’accetti.
ARIODATE.
È poco un core
di tante gratie a l’immortal honore,
chi sarà?
XERSE.
Lo saprete.
ARIODATE.
Del vostro sangue?
XERSE.
Sì.
ARIODATE.
Conosciuto da me?
XERSE.
Quanto ch’è Xerse.
ARIODATE.
Simile a voi?
XERSE.
Vedrete.
ARIODATE.
Eguale a Xerse? Del suo regio sangue?
Conosciuto da me?
Arsamene, Arsamene altri non è.
O me lieto, o me beato!
Quante aduna
la Fortuna
liete sorti a un fortunato.
Scena settima
Villaggio delitioso dietro le mura della città, con veduta di Bosco.
Eumene, Romilda, Clito.
EUMENE.
Di donar i serti, già
la Fortuna si stancò,
e ‚l bambin, che nudo va
in suo loco delegò.
Ma v’è poca varietà,
che da un cieco a l’altro va.
Fu beata quell’età,
ch’a virtù li dispensò:
sorte poi rapiti gl’ha;
hoggi Amor se li usurpò:
ma v’è poca varietà,
che da un cieco a l’altro va.
Ecco la favorita. A voi signora
Xerse invia questo dono.
ROMILDA.
A me?
EUMENE.
A voi.
ROMILDA.
Di Persia la corona?
EUMENE.
E questa, e ‚l Regno, e ‚l proprio cor vi dona.
ROMILDA.
Ahimè! Che deggio far? Prendila Clito.
Dite al mio Re, Cieli, Fortuna, Amore,
consigliatemi voi. Ditegli. Oh Dio!
Dite.
EUMENE.
Che gli dirò?
ROMILDA.
Ditegli che: che poi gli parlerò.
Che chiedete da me fascie reali?
Ch’io ribelli mia fede?
Ch’io tradisca Arsamene? Ah v’ingannate
v’adoro, e vi rinunzio,
vi bacio, e vi rifiuto: andate, andate.
Ma che? vorrò più tosto,
che sciogliermi dal cor nodi servili
trarmi di capo le corone? E vili,
e sconsigliati son questi pensieri
dir insidie a gl’Imperi?
Chiamar frode a i Diademi?
Che deliro? Son stolta?
CLITO.
E finite una volta.
ROMILDA.
Candidi invogli, pretiosi lini
è viltà non gradirvi,
sprezzarvi è fellonia: sù questi crini
per trionfo v’inalzo. E che trionfo?
D’infedeltà? Di tradimento? Clito
scostati, che non voglio esser regnante,
mi basta esser amante.
CLITO.
Ecco sen viene il Re.
ROMILDA.
Partiti.
ELVIRO.
E‘ hora a fé.
Scena ottava
Xerse, Romilda.
XERSE.
Mia Regina? mia Sposa?
ROMILDA.
Che dite, ahimè! così non mi chiamate.
XERSE.
Perché?
ROMILDA.
Perché oscurate
il decoro real.
XERSE.
Come?
ROMILDA.
Sentite.
XERSE.
Che sarà? tosto dite.
ROMILDA.
Arsamene mi amò.
XERSE.
Principio infausto!
ROMILDA.
Fu modesto, e fedel, forse tra quanti.
XERSE.
Bene passate avanti.
ROMILDA.
Scoprir a pena ardì,
tacito m’adorò, muto servì.
Che maniere! vedete.
XERSE.
Romilda m’uccidete.
ROMILDA.
Al fine ardito
m’arrossisco, Signor, non lo dirò:
parto, e lo scriverò.
XERSE.
No, no seguite,
ch’aspettar non poss’io.
ROMILDA.
Non so, se ardir, o se fortuna fu.
XERSE.
Ah, ch’io non posso più.
ROMILDA.
Le sue labbra accostò.
XERSE.
Dove?
ROMILDA.
A le mie, e, e.
XERSE.
E vi bacciò?
ROMILDA.
A punto.
XERSE.
Ah ben m’avveggio,
che per fuggir le nozze mie, mentite.
Ma siasi, o no, l’aver sue colpe udite
m’obliga a castigarle. O là, veloci
Arsamene seguite, e l’uccidete.
Vedova di quel baccio,
sposa poi mi sarete.
ROMILDA.
Fermate, oh Dio! mio Re, mio sposo, sia,
ciò, che volete, bene;
ma non mora Arsamene. Ah parlo in vano
al fugace inhumano.
Che barbara pietà!
per dar vita ad altrui darli la morte!
O mia perfida sorte!
Che m’insegnasti mai Cielo inclemente?
dar colpa a un’innocente
di falsa reità,
che barbara pietà!
che misero destin!
per mantenermi a la mia vita in dono
homicida gli sono.
Sicaria fedeltade, amor spietato!
affetto scelerato!
pietosa crudeltà,
che barbara pietà!
Scena nona
Amastre, Romilda, Clito.
AMASTRE.
Questo foglio a l’iniquo invierò,
e se poi mi disprezza a morte andrò.
ROMILDA.
(Romilda, il Ciel questo guerriero invia):
se cortese, se pia
nutrite alma nel sen, Guerrier gentile,
le mie preghiere udite.
AMASTRE.
A me dovete
porger leggi, e non preghi: ho ben memoria,
c’hoggi toglieste il mio infelice piè
da i ceppi di quell’empio,
ingratissimo Re.
ROMILDA.
Ingratissimo, a punto, Egli comanda
ch’Arsamene s’uccida; oh Dio vi prego,
cercatelo, avvisatelo: d’alcuno
di Corte non m’affido,
AMASTRE.
Al Re crudele
fate recar questo mio foglio, e io
nulla a servirvi tarderò.
ROMILDA.
Tu Clito
a Xerse lo darai.
CLITO.
V’ubbidirò.
ROMILDA.
Ite dunque cortese.
AMASTRE.
Io vado.
ROMILDA.
Il core
con la speme lusinga il rio timore.
Scena decima
Clito, Elviro.
CLITO.
Lasciami andar a Xerse.
ELVIRO.
Eh vieni un poco,
vedi quanti monili, e quante d’oro
pretiosissime masse.
CLITO.
Il Re, di tutto
gli fece inutil dono.
ELVIRO.
Cieli, perché ancor io
un Platano non sono?
Quanti son, ch’adesso dicono
tra se stessi dentro ‚l cor,
oh s’io trovassi un’arbore,
che facesse frutta d’or;
pur farei,
pur direi,
e ‚l pensier s’aggira, e varia,
quanti fan castelli in aria.
Quell’amante a la bellissima
vaga sua lo vorria dar;
quel, ch’inclina a l’arte chimica
lo farebbe in fumo andar;
quanti strani
sensi humani
il pensier aggira, e varia,
quanti fan castelli in aria.
CLITO.
Senti Elviro: vogliamo
coglier di quella frutta?
ELVIRO.
A fé possiamo:
pria, che ci sturbi alcun, facciasi presto.
Vedesti?
CLITO.
Che?
ELVIRO.
Due mori.
CLITO.
Io nulla vidi.
ELVIRO.
No? m’eran parsi in vero:
io son pur timoroso.
CLITO.
Ahimè, ahimè.
ELVIRO.
E che cos’hai?
CLITO.
Mi parve
di vedere i due Mori.
Me li hai posti in pensiero.
ELVIRO.
Ahimè.
CLITO.
Ahimè.
ELVIRO.
Uh son Diavoli a fé.
CLITO.
Aiuto o Cieli, o Dei!
ELVIRO.
Ah che de‘ danni miei
fosti la causa tu.
CLITO.
Io non ho spirto; io non ho fiato più.
Scena undicesima
Sala Reggia.
Amastre, Arsamene.
AMASTRE.
Va speranza, vanne, va;
non mi dir
che soffrir io debba più;
chi ribelle un giorno fu,
più fedel non diverrà
va speranza, vanne, va.
No, mio cor, non creder più,
s’il crudel,
infedel m’abbandonò,
a quel nodo, che spezzò
prigionier più non verrà;
va speranza, ecc.
Ma qui giunge Arsamene
Signor, contro di voi brandi homicidi
suscita Xerse, e insidia i vostri passi,
comandata la morte; hor voi fuggite,
non tentate la sorte;
ve ne avvisa Romilda.
ARSAMENE.
Romilda? quell’ingrata?
AMASTRE.
Altro non so.
ARSAMENE.
E di me pensa ancora,
Romilda, che m’inganna?
Scena dodicesima
Romilda, Arsamene.
ROMILDA.
Romilda, che v’adora
di voi pensa ad ogn’hora.
ARSAMENE.
Pensa, ma di tradirmi.
ROMILDA.
D’amarvi.
ARSAMENE.
Di schernirmi.
ROMILDA.
Di salvarvi da l’ire.
ARSAMENE.
Di Xerse è ver, so che così direte?
per spronarmi a partire?
ROMILDA.
E non credete.
ARSAMENE.
Voglio,
voglio a vostro dispetto, allhor, che a Xerse
giungerete la destra ivi trovarmi,
uccidermi, svenarmi.
ROMILDA.
Oh Dio! Xerse; sentite.
ARSAMENE.
So, che sempre mentite,
m’havrete ogn’hor squalido spettro intorno.
Individuo, sanguigno, e nudo teschio,
vi scuoterò da‘ sonni, ombra insepolta;
con flagel di Ceraste
a l’ombre de la notte, a i rai del giorno
m’havrete ogn’hor squalido spettro intorno.
ROMILDA.
Deh ascoltate.
ARSAMENE.
Tacete.
ROMILDA.
Ahi che martiro!
giunge il mio Genitor; vado a morire.
Scena tredicesima
Ariodate, Romilda, Arsamene.
ARSAMENE.
Ecco lo sposo. A fé m’apposi al vero.
Romilda non partite.
ROMILDA.
E che sarà?
ARIODATE.
A colmarmi di gratie,
Signor, so che venite; ad alta sfera
così di sollevar piccioli augelli
usa l’aquila altera.
ARSAMENE.
Hor che mi dite?
ARIODATE.
Che vi dò Romilda
per serva, humile, e sposa,
come m’impose il Re.
ARSAMENE.
Il Re.
ARIODATE.
S’io ben l’intesi.
ROMILDA.
Oh ciel ch’ascolto?
ARIODATE.
Non sete voi, cui piace
d’accettarla in consorte?
ARSAMENE.
Altra non amo.
ARIODATE.
E per ciò qui veniste?
ARSAMENE.
Altro non bramo.
ARIODATE.
Dunque non erro.
ROMILDA.
Attenta ascolto, e a pena
a ciò che sento i‘ credo.
ARIODATE.
Romilda acconsentite?
ROMILDA.
Altro non chiedo.
ARIODATE.
Sete pur voi, Signore,
che Romilda bramate?
ARSAMENE.
Ella è ‚l mio core.
ARIODATE.
Stringete homai le destre: e a vostre gioie
Atropo sia, che fili
in lungo stame d’or giorni senili.
ARSAMENE.
O diletti improvisi.
ROMILDA.
O gioie insperate!
ARIODATE.
O Cieli amici!
A TRE.
O fortune beate! O noi felici!
ARIODATE.
Restate: i‘ vado a render gratie a Xerse,
ch’il mio destin di regia luce asperse.
ARSAMENE.
Stupido resto, che le nostre nozze
Xerse comandi.
ROMILDA.
E che deposte l’ire,
lasciarmi sì contenti.
ARSAMENE.
La ragion l’havrà mosso.
ROMILDA.
L’havran mosso i miei pianti.
ARIODATE.
E i miei tormenti.
ARSAMENE.
Ch’io vada a ringraziarlo ei si conviene.
Parto mio cor, mio bene.
ROMILDA.
Anch’io verrò tra poco.
mia speranza, mio foco,
ARSAMENE.
Resta
ROMILDA.
viene
ARSAMENE E ROMILDA.
il cor
ARSAMENE.
parte
ROMILDA.
resta
ARSAMENE E ROMILDA.
il piè.
ARSAMENE E ROMILDA.
Sol in te vivo son io.
ARSAMENE.
Resta, o vita.
ROMILDA.
Va cor mio.
Scena quattordicesima
ARISTONE.
Colà sù ‚1 lito, ove m’impose Amastre
fin hora attesi in vano,
che sarà mai? quai pene
hoggi provar mi tocca!
Quanti, gelida tema,
strali di giaccio al dubbio cor mi scocca?
La Donna caduta
in lacci d’amore
di senno è perduta,
se priva di core,
e perché spesso amor pazzia diviene,
amor per i suoi pazzi ha le catene.
Né legge, né freno
ha femina amante;
ma chiude nel seno
un cor delirante,
e perché son pazzie d’amar le pene
amor per i suoi, ecc ….
Scena quindicesima
Periarco, Xerse.
PERIARCO.
Dunque fate rifiuto
de le nozze d’Amastre? e non vi cale
d’un diadema reale?
XERSE.
Non è rifiuto, è sorte,
che lo divieta.
PERIARCO.
Inclina,
ma non sforza il Destino.
XERSE.
Sforza il Nume bambino
riportate ad Ottane
ch’a noi sposa è Romilda, e che non siamo
in gratia a la Fortuna
quant’ei mostra pensarsi; havremo sempre
di sue cortesi offerte
memorie al cor immobilmente inserte.
PERIARCO.
Et è fermo così?
XERSE.
Non può mutarsi
ciò, ch’il Fato ordinò.
PERIARCO.
Parto, e riferirò.
Scena sedicesima
Xerse, Ariodate.
XERSE.
Sen viene Ariodate; è tempo hormai
di scoprir, che son io,
che Romilda desio.
Eccomi Ariodate.
ARIODATE.
Invitto Sire
v’inchino riverente.
XERSE.
Hor che vi sembra?
lo sposo è qual vi dissi?
ARIODATE.
Il mio desire
giamai tanto fallì.
XERSE.
Sete contento?
ARIODATE.
Son beato.
XERSE.
Romilda
ne sarà sodisfatta?
ARIODATE.
Anzi felice.
XERSE.
Ma perché homai non viene?
ARIODATE.
Hor, hor verrà.
XERSE.
Dov’è?
ARIODATE.
Con Arsamene.
XERSE.
Che?
ARIODATE.
Con lo sposo.
XERSE.
Come?
ARIODATE.
Con lo sposo Signor.
XERSE.
Che sposo? ahimè!
ARIODATE.
Come imponeste.
XERSE.
Io? Che v’imposi? Che?
ARIODATE.
Eguale a voi, del vostro sangue, e venne
in queste stanze.
XERSE.
E tanto ardì!
ARIODATE.
Credei.
XERSE.
Non più: v’intendo; e del divieto mio
nulla curò?
ARIODATE.
Signore.
XERSE.
E sono sposi?
ARIODATE.
Sono.
XERSE.
Ah traditore!,
empio, perfido, indegno
di quell’aure, che spiri,
di quel Cielo, che miri.
ARIODATE.
Mio Re!
XERSE.
Che Re? Se m’hai tradito,
che Re? se m’hai schernito.
ARIODATE.
Uccidetemi.
XERSE.
Il ferro
avvilirei. Romilda, tu, Arsamene
tutti morrete; e perché resti insieme
satia del mio Destin la ferita
anco Xerse morrà.
Scena diciassettesima
Clito, Xerse, Ariodate.
ARIODATE.
Ecco il misero Clito,
rifiuto de gli spirti, e de l’inferno
avvanzo non gradito.
XERSE.
Ecco de l’empia
il Paggio; che riporti?
CLITO.
Questo foglio signor.
XERSE.
A me l’invia?
CLITO.
A voi.
XERSE.
Che pensi, o ria
con magiche figure, e inchiostri indegni
incantar i miei sdegni? Al Re di Persia
che Re? Re sono, e mi dileggi?
Leggi barbaro, leggi.
ARIODATE.
Oh Dei, perché non moro!
ARIODATE leggendo.
Ingratissimo amante.
XERSE.
Ingrato anco mi chiama?
Lettera.
Venni per esser vostra.
XERSE.
E altrui si sposa?
Lettera.
Trovai, che mi sprezzate.
XERSE.
E di beffarmi
anco ardisce? ancor osa?
ARIODATE.
O note scelerate!
Lettera.
Parto.
XERSE.
Ti seguirò sin ch’io ti sveni.
CLITO.
Egli è sdegnato; io vo partir a fé.
Lettera.
Punirà giusto Ciel le vostre colpe.
XERSE.
Colpe d’haverti amato.
Lettera.
Io piangerò, sin che l’estremo fiato
spiri infelice. Amastre.
XERSE.
Che?
ARIODATE.
Non scrive Romilda;
sire, che grave duol, non m’avvisai
del caratere ignoto.
XERSE.
Porgimi il foglio; indegno.
Amastre. Scrive Amastre?
non restava altro tedio in tanto sdegno.
Scena diciottesima
Galleria d’Arazzi, et Appartemento.
ADELANTA.
Arsamene è già sposo, Amor va in pace,
non scherzerò più mai con la tua face.
Più rigido,
che scoglio asprissimo,
che gel durissimo
sarà il mio cor.
Né frangere
mia crudeltà
pregar, o piangere
giamai potrà.
Più fulgidi
ch’il sol fiammeggiano
e più lampeggiano
rai di beltà.
Risplendere
potranno a fé,
ma non accendere
fiamma per me.
Scena diciannovesima
Xerse, Arsamene, Eumene.
XERSE.
Lasciatemi morir stelle, spietate,
che ‚l mantenermi in vita è crudeltà.
Anima disperata,
rifiuto d’un’ingrata,
privo d’ogni speranza, e di pietà,
al pianto moverò l’alme dannate,
lasciatemi ecc.
Di vilipeso Re pompe sprezzate,
scetro e benda real non curo più;
s’a comprarmi un affetto,
o mio scettro negletto,
bastevole non sei, ben vil sei tu.
Sì da poco non son l’ombre gelate,
lasciatemi ecc.
EUMENE.
Voi piangete signor, alma d’eroe,
cede a l’uso volgare
de le femine imbelli,
e de‘ semplici amanti?
So ch‘ affetti ribelli
del decoro real son quei pianti.
XERSE.
Ah ch’io non son più Re, t’inganni Eumene
sono un mostro di pene.
EUMENE.
Di Romilda le nozze
sono a Xerse ineguali,
da la ragion contese,
dal decoro negate,
proibite dal Fato.
XERSE.
Io son per conseguenza un disperato.
EUMENE.
Direi; ma le mie voci
vi sembreranno ardite.
XERSE.
Di‘ ciò che vuoi.
EUMENE.
Udite.
È sciocchezza d’un Amante
lagrimar, se può gioir;
questo nome di costante
costa lagrime, e martir.
Non merta il vostro amor chi non lo brama
non amate chi non v’ama.
Mille a fé vi seguiranno,
se costei vi fuggirà.
sarà poco il vostro danno,
sua la perdita sarà.
Non merta il vostro amor chi non lo brama
non amate chi non v’ama.
ARSAMENE.
Signor gratie bastanti
non ha il mio cor.
XERSE.
Inanti
osi ancora venirmi?
ARSAMENE.
Humile e ringraziarvi.
XERSE.
Empio a schernirmi.
ARSAMENE.
Come, Signor?
XERSE.
Romilda pur m’hai tolta.
ARSAMENE.
L’hebbi da Ariodate, ei pur mi disse,
ch’era vostro comando.
XERSE.
Empi pretesti
ei ti die’l ferro in man, tu m’uccidesti.
Prendi, va; quest’acciaro
nel seno a l’empia immergi
poscia del sangue reo tinto me’l rendi;
prendi, barbaro, prendi.
ARSAMENE.
Ch’io sveni colei,
ch‘ in vita mi tiene
pensieri sì rei
il cor non sostiene,
col solo riflesso
a detti sì enormi
pensieri m’offendi.
XERSE.
Prendi, barbaro, prendi.
ARSAMENE.
Il cor, ch’è già fatto
de l’Idolo mio
un vivo ritratto
svenar ben poss’io.
Hor dammi quel ferro
e quanto il tuo sdegno
sia perfido attendi.
XERSE.
Prendi, barbaro prendi.
Scena ventesima
Amastre, Xerse, Arsamene, Aristone, Periarco, Romilda, Ariodate, Adelanta.
AMASTRE.
‚Datelo a me, signore!
XERSE.
E chi sei tu
c’hoggi sempre mi sturbi?
AMASTRE.
Uno che giunge
a vendetta opportuna.
ARSAMENE.
O strano evento!
AMASTRE.
Volete, che si sveni
un’alma che tradì,
chi pur l’adora?
XERSE.
Sì.
AMASTRE.
Che si laceri un cor d’alpina selce,
che chi l’amò schernì?
Così volete?
XERSE.
Sì.
AMASTRE.
T’è dunque, indegno
mostro di tradimenti, e d’empietà
Amastre ucciderà.
ARSAMENE.
O strana sorte!
XERSE.
Io resto muto.
ARISTONE.
O cieli,
che veggio? che fai qui?
Signor costui vaneggia, ed è ben spesso
da deliri assalito.
PERIARCO.
Eccoli a fé, son dessi.
AMASTRE.
No, no Aristone, ch’hoggi mai finito
è ‚1 tempo di mentire.
PERIARCO.
Io già non dilirai.
XERSE.
Uccidetemi sì; che s’ho perduta
Romilda la mia vita,
ben è ragion, che sia
questo, del viver mio l’ultimo dì.
Uccidetemi; sì.
AMASTRE.
Romilda è la tua vita?
Con la figlia d’Ottane
ch’alletasti al tuo amor? che per seguirti
veste indecenti a sé spoglie virili,
empio, parli così.
XERSE.
Uccidetemi sì.
AMASTRE.
No, no: morir degg’io. Tu vivi iniquo.
E per eccesso d’empietà inhumana,
se calpestasti la mia viva fede,
con barbarie sacrilega, e infesta
il cadavere mio premi, e calpesta.
XERSE.
Ahi qual mi serpe in sen pietoso affetto!
AMASTRE.
Così ‚1 Fato richiede,
che tu viva, ch’io mora,
tu di perfidia essempio, e io di fede.
XERSE.
Fermate, ahimè, pentito son, v’adoro:
se v’uccidete, i‘ moro.
AMASTRE.
Ritornate ad amarmi?
XERSE.
Torno, ma so ch’indegno,
bella, son di perdono, e di pietade
Amastre, vita, cor, Idolo mio
ecco il seno, piagate.
ARSAMENE.
Io respiro.
PERIARCO.
Io stupisco.
ARISTONE.
Io mi consolo.
AMASTRE.
Vada pur lungi, vada irato ferro,
hor, che s’apre in quel core
per me piaga d’Amore.
XERSE.
O mia bella pietosa
vi sarò servo humile.
AMASTRE.
Io fida sposa.
XERSE.
Voi ciò, ch’hora vedete
ad Ottane direte.
PERIARCO.
Mi prostro a‘ vostri piedi,
nel conoscervi già non feci errore.
ARISTONE.
Di finger c’insegnò zelo d’onore.
XERSE.
Arsamene, Romilda, Ariodate,
Amastre è questa, mio rinato foco,
mia Sposa, mia Regina.
AMASTRE, XESTRE E PERIARCO.
Humile il cor l’adora, e ‚1 piè l’inchina.
XERSE.
Compatite i miei sdegni e i miei furori,
e godete felici i vostri amori.
ADELANTE.
Io, che sorte non ho
celibe viverò.
AMASTRE, PERIARCO, XESTRE E ARISTONE.
Amante di me
più lieto non è
non fu, non sarà.
Delicie più care,
più dolci contenti,
o gioie più rare
tra gl‘ astri lucenti
non sono colà
amante di me, ecc.
Il fine