Wolfgang Amadeus Mozart
La clemenza di Tito
Dramma serio per musica in due atti
Libretto von Caterino Mazzolà
Uraufführung: 06.09.1791, Gräflich Nostitzsches Nationaltheater (heute: Tyltheater), Prag
Interlocutori
Tito Vespasiano, Imperator di Roma
Vitellia, Figlia dell‘ Imperatore Vitellio
Servilia, Sorella di Sesto, amante d’Annio
Sesto, Amico di Tito, amante di Vitellia
Annio, Amico di Sesto, amante di Servilia
Publio, Prefetto del Pretorio
La Scena è in Roma.
Argomento.
Non à conosciuto l’antichità nè migliore, nè più amato Principe di Tito Vespasiano. Le sue virtù lo refero a tutti si caro, che fu chiamato la delizia del genere umano. E pure due giovani Patrizi, uno dé quali era suo Favorito, cospirarono contro di lui. Scoperta però la congiura furono dal Senato condannati a morire. Ma il clementissimo Cesare, contento di averli paternamente ammoniti, concesse loro, ed‘ à loro complici un generoso perdono. Sueton, Aurel, Vict. Dio. Zonar. etc.
Atto primo.
Scena prima.
Appartamenti di Vitellia.
Vitellia, e Sesto.
VITELLIA.
Ma che? sempre l’istesso,
Sesto, a dir mi verrai? Sò, che sedotto,
Fù Lentulo da te: che i suoi seguaci
Son pronti gia: che il Campidoglio acceso
Darà moto a un tumulto. Io tutto questo
Gia mille volte udii; la mia vendetta
Mai non veggo però. S’aspetta forse
Che Tito a Berenice in faccia mia
Offra d’amor insano
L’usurpato mio foglio, e la sua mano?
Parla, di, che s’attende?
SESTO.
Oh Dio!
VITELLIA.
Sospiri!
SESTO.
Pensaci meglio, o cara
Pensaci meglio, Ah non togliamo in Tito
La sua delizia al mondo, il Padre a Roma,
L’amico a noi. Fra le memorie antiche
Trova l’egual, se puoi. Fingiti in mente
Eroe più generoso, e più clemente.
Parlagli di premiar; poveri a lui
Sembran pli Erarj sui.
Parlagli di punir; scuse al delitto
Cerca in ognun; chi all‘ inesperta ci dona,
Chi alla canuta età. Risparmia in uno
L’onor del sangue illustre: il basso stato
Compatisce nell‘ altro. Inutil chiama,
Perduto il giorno ci dice,
In cui fatto non ha qualcun felice.
VITELLIA.
Dunque a vantarmi in faccia
Venisti il mio nemico? e più non pensi
Che questo Eroe clemente un soglio usurpa
Dal suo tolto al mio padre?
Che m’ingannò, che mi fedusse (e, qoesto
E‘ il suo fallo maggior) quasi ad amarlo.
E poi, perfido! e poi di nuovo al Tebro
Richiamar Berenice! una rivale
Avesse scelta almeno
Degna di me fra le beltà di Roma.
Ma una Barbara, Sesto,
Un‘ esule antepormi, una Regina!
SESTO.
Sai pur che Berenice
Volontaria tornò.
VITELLIA.
Narra à fanciulli
Codeste fole. Io sò gli antichi amori:
Sò le lacrime sparse allor, che quindi
L’altra volta partì: Sò come adesso
L’accolse, e l’onorò: chi non lo vede?
Il perfido l’adora.
SESTO.
Ah Principessa,
Tu sei gelosa.
VITELLIA.
Io!
SESTO.
Si.
VITELLIA.
Gelosa io sono,
Se non soffro un disprezzo?
SESTO.
Eppur …
VITELLIA.
Eppure
Non hai cor d’acquistarmi.
SESTO.
Io son …
VITELLIA.
Tu sei
Sciolto d’ogni promessa. A me non manca
Più degno esecutor dell‘ odio mio.
SESTO.
Sentimi.
VITELLIA.
Intesi assai.
SESTO.
Fermati
VITELLIA.
Addio.
SESTO.
Ah Vitellia, ah mio Nume,
Non partir! dove vai?
Perdonami, ti credo, io m’ingannai.
SESTO.
Come ti piace imponi:
Regola i moti miei.
Il mio destin tu sei:
Tutto farò per te.
VITELLIA.
Prima che il sol tramonti,
Estinto io vò l’indegno.
Sai ch’egli usurpa un Regno,
Che in forte il ciel mi diè.
SESTO.
Già il tuo furor m’accende.
VITELLIA.
Ebben, che più s’attende?
SESTO.
Un dolce sguardo almeno
Sia premio alla mia fè.
VITELLIA, SESTO.
Fan mille affetti insieme
Battaglia in me spietata.
Un’alma lacerata
Più della mia non v’è.
Scena II
Annio, e detti.
ANNIO.
Amico, il passo affretta:
Cesare a se ti chiama.
VITELLIA.
Ah non perdete
Questi brevi momenti. A Berenice
Tito gli usurpa.
ANNIO.
Ingiustamente oltraggi,
Vitellia, il nostro Eroe. Tito hà l’impero
E del mondo, e di se. Già per suo cenno
Berenice partì.
SESTO.
Come?
VITELLIA.
Che dici?
ANNIO.
Voi stupite a ragion. Roma ne piange,
Di maraviglia, e di piacere. Io stesso
Quasi nol credo: ed io
Fui presente, o Vitellia, al grande addio.
VITELLIA.
(Oh speranze!)
SESTO.
Oh virtù!
VITELLIA.
Quella superba
Oh come volontieri udita avrei
Esclamar contro Tito.
ANNIO.
Anzi giammai
Più tenera non fù: Parti; ma vide,
Che adorata partiva, e che al suo caro
Men che a lei non costava il colpo amaro.
VITELLIA.
Ognun può lusingarsi.
ANNIO.
Eh si conobbe,
Che bisognava a Tito
Tutto l’Eroe per superar l’amante.
Vinse, ma combattè: non era oppresso,
Ma tranquillo non era: ed in quel volto
(Dicasi per sua gloria)
Si vedea la battaglia, e la vittoria.
VITELLIA.
(Eppur forse con me, quanto credei
Tito ingrato non è) Sesto, sospendi
D’eseguire i miei cenni: il colpo ancora
Non è maturo.
SESTO.
E tu non vuoi ch’io vegga!..
Ch’io mi lagni, o crudele!..
VITELLIA.
Or che vedesti?
Di che ti puoi lagnar?
SESTO.
Di nulla, (oh Dio!)
Chi provò mai tormento eguale al mio.
VITELLIA.
Deh se piacer mi vuoi,
Lascia i sospetti tuoi:
Non mi stancar con questo
Molesto dubitar.
Chi ciecamente crede,
Impegna a serbar fede;
Chi sempre inganni aspetta
Alletta ad ingannar.
Parte.
Scena III.
Sesto, ed Annio.
ANNIO.
Amico, ecco il momento
Di rendermi felice. All‘ amor mio
Servilia promettesti. Altro non manca
Che d’Augusto l’assenso. Ora da lui
Impetrarlo potresti
SESTO.
Ogni tua brama,
Annio, m’è legge. Impaziente anch’io
Questo nuovo legame, Annio, desio.
ANNIO, SESTO.
Deh prendi un dolce amplesso
Amico mio fedel:
E ognor per me lo stesso
Ti serbi amico il ciel.
Partono.
Scena IV.
Parte del Foro romano magnificamente adornato d’arehi, obelisehi, e trofei: in faccia aspetto esteriore del Campidoglio, e magnifica strada, per cui vi si ascende.
Publio, Senatori romani, e i Legati delle Provincie soggette, destinati a presentare al Senato gli annui imposti tributi. Mentre Tito, preceduto da Littori, seguito da Pretoriani, e circondato da numerpso popolo, scende dal Campidoglio, cantarsi il seguente.
CORO.
Serbate, o Dei custodi
Della Romana sorte
In Tito il giusto, il forte
L’onor di nostra età.
Voi gl’immortali allori
Sulla cesarea chioma,
Voi custodite a Roma
La sua felicità.
Fù vostro un si gran dono:
Sia lungo il dono vostro;
L’invidj al mondo nostro
Il mondo, che verrà.
Nel fine del Coro suddetto, Annio, e Sesto da diverse parti.
PUBLIO a Tito.
Te della Patria il Padre
Oggi appella il Senato: e mai pià giusto
Non fu ne‘ suoi decreti, o invitto Augusto.
ANNIO.
Nè padre sol, ma sei
Suo Nume tutelar. Più che mortale
Giacchè altrui ti dimostri, a‘ voti altrui
Cemincia ad avvezzarti. Eccelso tempio
Ti destina il Senato: e là si vuole
Che fra divini onori
Anche il Nume di Tito il Tebro adori.
PUBLIO.
Quei tesori, che vedi,
Delle serve Provincie annui tributi,
All‘ opra consagriam. Tito non sdegni
Questi del nostro amor publici segni.
TITO.
Romani, unico oggetto
E‘ de‘ voti di Tito il vostro amore:
Ma il vostro amor non passi
Tanto i confini suoi
Che debbano arrossirne e Tito, e voi.
Quegli offerti tesori
Non ricuso però. Cambiarne solo
L’uso pretendo Udite: oltre l’usato
Terribile il Vesevo ardenti fiumi
Dalle fauci eruttò: scosse le rupi:
Riempiè di ruine
I campi intorno, e le città vicine.
Le desolate genti
Fuggendo van: ma la miseria opprime
Quei che al foco avvanzar. Serva quell’oro
Di tanti afflitti a riparar lo scempio.
Questo, o Romani, è fabbricàrmi il Tempio.
ANNIO.
Oh vero Eroe!
PUBLIO.
Quanto di te minori
Tutti i premj son mai tutte le lodi!
TITO.
Basta, basta, o miei fidi.
Sesto a me s’avvicini: Annio non parta.
Ogn‘ altro s’allontani.
ANNIO.
(Adesso, o Sesto,
Parla per me.)
Si ritirano tutti fuori dell‘ Atrio, e vi rimagonu, Tito, Sesto, eà Annio.
SESTO.
Come, Signor, potesti
La tua bella Regina?..
TITO.
Ah, Sesto amico,
Che terribil momento! Io non credei …
Basta; hò vinto: portì. Tolgasi adesso
A Roma ogni sospetto
Di vederla mia sposa. Una sua figlia.
Vuol veder sul mio soglio,
E appagarla convien. Giacchè l’amore
Scelse in vano i miei lacci, io vò, che almeno
L’amicizia li scelga. Al tuo s’unisca,
Sesto, il cesareo sangue. Oggi mia sposa
Sarà la tua germana.
SESTO.
Servilia!
TITO.
Appunto.
ANNIO.
(Oh me infelice!)
SESTO.
(Oh Dei!
Annio è perduto.)
TITO.
Udisti?
Che dici? non rispondi?
SESTO.
E chi potrebbe
Risponderti Signor? M’opprime a segno
La tua bontà. Che non hò cor … vorrei …
ANNIO.
(Sesto è in pena per me.)
TITO.
Spiegati. Io tutto
Farò per tuo vantaggio
SESTO.
(Ah si serva l’amico.)
ANNIO.
(Annio corraggio.)
SESTO.
Tito ….
ANNIO.
Augusto, conosco
Di Sesto il cor. Fin dalla cuna insieme
Tenero amor ne strinse. Ei di se stesso
Modesto estimator seme, che sembri
Sproporzionato il dono: e non s’avvede
Ch’ogni distanza egnaglia
D’un Cesare il favor. Ma tu consiglio
Da lui prender non dei. Come potresti
Sposa elegger più degna
Dell‘ impero, e di te? Virtù, bellezza,
Tutto è in Servilia. Io le conobbi in volto
Ch’era nata a regnar. De‘ miei presagi
L’adempimento è questo.
SESTO.
(Annio parla cofi? Sogno, o son desto!)
TITO.
Ebben recane a lei,
Annio, tu la novella; E tu mi siegui,
Amato Sesto; e queste
Tue dubbiezze deponi. Avrai tal parte
Tu ancor nel soglio, e tanto
T’innalzerò, che resterà ben poco
Dello spazro infinito,
Che fraposer gli Dei fra Sesto, e Tito.
SESTO.
Questo è troppo, o Signor. Modera almeno,
Se ingrati non ci vuoi,
Modera, Augusto, i benefici tuoi.
TITO.
Ma che? (se mi niegate
Che benefico io sia) che mi lasciate?
Del più sublime soglio
L’unico frutto è questo:
Tutto è tormento il resto;
E tutto è servitù.
Che avrei, se ancor perdessi,
Le sole ore felici
C’hò nel giovar gli oppressi:
Nel sollevar gli amici:
Nel dispensar tesori
Al merto, e alla virtù.
Parte con Sesto.
Scena V.
Annio, e poi Servilia.
ANNIO.
Non ci pentiam. D’un generoso amante
Era questo il dover. Mio cor, deponi
Le tenerezze antiche: è tua Sovrana
Chi fu l’idolo tuo. Cambiar conviene
In rispetto l’amore. Eccola. Oh Dei!
Mai non parve sì bella agli occhi miei.
SERVILIA.
Mio ben.
ANNIO.
Taci, Servilia. Ora è delitto
Il chiamarmi così.
SERVILIA.
Perché?
ANNIO.
Ti scelse
Cesare (che martir!) per sua consorte.
A te (morir mi sento) a te m’impose
Di recarne l’avviso (oh pena!) ed io – – –
Io fui – – (parlar non posso) Augusta; addio.
SERVILIA.
Come! fermati. Io sposa
Di Cesare? E perché?
ANNIO.
Perché non trova
Beltà, virtù che sia
Più degna d’un Impero, anima – – – oh stelle!
Che dirò? lascia, Augusta,
Deh lasciami partir.
SERVILIA.
Cosi confusa
Abbandonarmi vuoi? Spiegati: dimmi,
Come fu? Per qual via? – – –
ANNIO.
Mi perdo, s’io non parto, anima mia.
Ah perdonna al primo affetto
Questo accento sconsigliato,
Colpa fù del labbro, usato
A cosi chiamarti ognor.
SERVILIA.
Ah tu fosti il solo oggetto
Che finor fedele amai;
E tu l’ultimo sarai,
Come fosti il primo amor.
ANNIO.
Cari accenti del mio bene.
SERVILIA.
Oh mia dolce cara spene.
Più che sento i sensi tuoi
In me cresce più l’ardor.
Qual piacer il cor risente
Quando un‘ alma è all altra unita! – – –
Ali si tronchi dalla vita
Tutto quel che non è amor.
Partono.
Scena VI.
Ritiro delizioso nel Sogiorno Imperiale sul colle Palatino.
Tito, e Publio con un foglio.
TITO.
Che mi rechi in quel foglio?
PUBLIO.
I nomi ei chiude
De‘ rei, che osar con temerari accenti
De‘ Cesari già spenti
La memoria oltraggiar.
TITO.
Barbara inchiesta,
Che agli estinti non giova, e somministra
Mille strade alla frode
D’insidiar gl‘ innocenti.
PUBLIO.
Ma v’è Signor, chi lacerare ardisce
Anche il tuo nome.
TITO.
E che perciò? Se ‚l mosse
Leggerezza; nol curo:
Se follia; lo compiango.
Se ragion; gli son grato! e se in lui sono
Impeti di malizia; io gli perdono
PUBLIO.
Almen – – – –
Scena VII.
Serviglia, e delti.
SERVILIA.
Di Tito al piè – – – –
TITO.
Servilia! Augusta!
SERVILIA.
Ah Signor, si gran nome
Non darmi ancora. Odimi prima – – so deggio
Palesarti un arcan.
TITO.
Publio, ti scosta;
Ma non partir.
Publio si ritira.
SERVILIA.
Che del Cesarco alloro
Me fra tante più degne,
Generoso Monarca, inviti a parte,
E‘ dono tal che desteria tumulto
Nel più stupido cor. Ma – – –
TITO.
Parla.
SERVILIA.
Il core
Signor, non è più mio. Già da gran tempo
Annio me lo rapì. Valor che basti
Non hò per obbliarlo. Anche dal Trono
Il solito sentiero
Farebbe a mio dispetto il mio pensiero.
Sò, che oppormi è delitto
D’un Cesare al voler: ma tutto almeno.
Sia noto al mio Sovrano;
Poi, se mi vuol sua sposa, ecco la mano.
TITO.
Grazie, o Numi del Ciel. Pur si ritrova
Chi s’avventuri a dispiacer col vero.
Alla grandezza tua la propria pace
Annio pospone! Tu ricusi un trono
Per essergli fedele! ed io dovrei
Turbar fiamme si belle! Ah non produce
Sentimenti si rei di Tito il core.
Sgombra ogni tema. Io voglio
Stringer nodo si degno, e n’abbia poi
Cittadini la patria eguali a voi.
SERVILIA.
Oh Tito! oh Augusto! oh vera
Delizia de‘ mortali! Io non saprei
Come il grato mio cor – – –
TITO.
Se grata appieno
Esser mi vuoi, Servilia, agli altri inspira
Il tuo candor. Di pubblicar procura,
Che grato a me si rende,
Più del falso che piace, il ver che offende.
Ah, se fosse intorno al Trono
Ogni cor così sincero,
Non tormento un vasto impero,
Ma faria felicità.
Non dovrebbero i Regnanti
Tollerar si grave affanno
Per distinguer dall‘ inganno
L‘ insidita verità.
Parte.
Scena VIII.
Servilia, poi Vitellia.
SERVILIA.
Felice me!
VITELLIA.
Posso alla mia Sovrana
Offrir del mio rispetto i primi omaggi?
Posso adorar quel volto
Per cui d’amor ferito
Hà perduto il riposo il cor di Tito?
SERVILIA.
Non esser meco irata:
Forse la regia destra è a te serbata
Parte.
Scena IX.
Vitellia, poi Sesto.
VITELLIA.
Ancora mi schernisce?
Questo soffrir degg‘ io
Vergognoso disprezzo? Ah con qual fasto
Qui mi lascia costei! barbaro Tito
Ti parca dunque poco
Berenice antepormi? Io dunque sono
L’ultima de‘ viventi. Ah trema ingrato,
Trema d’avermi offesa. Oggi ‚l tuo sangue – –
SESTO.
Mia vita.
VITELLIA.
Ebben, che rechi? Il campidoglio
E‘ acceso? è incenerito?
Lentulo dove stà? Tito è punito?
SESTO.
Nulla intrapresi ancor.
VITELLIA.
Nulla! e si franco
Mi torni innanzi? E con qual merto ardisci
Di chiamarmi tua vita?
SESTO.
E‘ tuo comando
Il sospendere il colpo.
VITELLIA.
E non udisti
I miei novelli oltraggi? un altro cenno
Aspetti ancor? Ma ch‘ io ti creda amante
Dimmi, come pretendi,
Se cosi poco i miei pensieri intendi?
SESTO.
Se una ragion poteste
Almen giustificarmi?
VITELLIA.
Una ragione!
Mille n’avrai, qualunque sia l’affetto
Da cui prenda il tuo cor regola, e moto.
E‘ la gloria il tuo voto? Io ti propongo
La patria a liberar. Sei d’un illustre
Anbizion capace? eccoti aperta
Una strada all‘ Impero.
Renderti fortunato
Può la mia mano? Corri,
Mi vendica, e son tua.
D’altri stimoli bai d’uopo?
Sappi, che Tito amai,
Che del mio cor l’acquisto
Ei t’impedì: che se rimane in vita,
Si può pentir: ch’io ritornar potrei
(Non mi fido di me) forse ad amarlo.
Or va: se non ti move
Desio di gloria, ambizione, amore;
Se tolleri un rivale,
Che usurpò, che contrasta,
Che involarti potria gli affetti miei,
Degli uomini ‚l più vil dirò che sei.
SESTO.
Quante vie d’assalirmi!
Basta, basta non più, già m’inspirasti,
Vitellia, il tuo furore. Arder vedrai
Fra poco il campidoglio, e quest‘ acciaro
Nel sen di Tito – – – (Ah sommi Dei! qual gelo
Mi ricerca le vene – – -)
VITELLIA.
Ed or che pensi?
SESTO.
Ah Vitellia!
VITELLIA.
Il previdi,
Tu pentito già sei.
SESTO.
Non son pentito,
Ma – – –
VITELLIA.
Non stancarmi più. Conosco, ingrato,
Che amor non hai per me. Folle, ch’io fui!
Già ti credea; già mi piacevi, e quasi
Cominciavo ad amarti. Agli occhi miei
Involati per sempre,
E scordati di me.
SESTO.
Fermati: io cedo
Io già volo a fervirti.
VITELLIA.
Eh non ti credo:
M’ingannerai di nuovo. In mezzo all‘ opra
Ricorderai – – –
SESTO.
Nò: mi punisca amore,
Se penso ad ingannarti.
VITELLIA.
Dunque corri; che fai? Perché non parti?
SESTO.
Parto, ma tu ben mio,
Meco ritorna in pace:
Sarò qual più ti piace
Quel che vorrai farò.
Guardami, e tutto obblio,
E a vendicarti io volo:
A questo sguardo solo
Da me si penserà
(Ah qual poter oh Dei!
Donaste alla beltà.)
Parte.
Scena X.
Vitellia, poi Publio, ed Annio.
VITELLIA.
Vedrai, Tito, vedrai, che alfin sì vile
Questo volto non è. Basta a sedurti
Gli amici almen, se ad invaghirti è poco.
Ti pentirai – – –
PUBLIO.
Tu qui, Vitellia? Ah corri.
Va Tito alle tue stanze.
ANNIO.
Vitellia, il passo affretta.
Cesare di te cerca.
VITELLIA.
Cesare!
PUBLIO.
Ancor nol sai?
Sua consorte t’elesse.
ANNIO.
Tu sei la nostra Augusta; e il primo omaggio
Già da noi ti si rende.
PUBLIO.
Ah Principessa, andiam: Cesare attende.
VITELLIA.
Vengo – – – aspettate – – Sesto – –
Ahimè! Sesto – è partito?
Oh sdegno mio funesto!
Oh insano mio furor!
(Che angustia! che tormento!
Io gelo oh Dio! d’orror.
PUBLIO, ANNIO.
Oh come un gran contento
Come confonde un cor.
Partono.
Scena XI.
Campidoglio, come prima.
Sesto solo, indi Annio poi Serviglia, Publio, Vitellia da diversa parti.
Oh Dei, che smania è questa
Che tumulto hò nel cor! palpito, agghiaccio,
M’incammino, m’artesto; ogn‘ aura, ogn‘ ombra
Mi fà tremare. Io non credea, che fosso
Si difficile impresa esser malvagio.
Ma compirla convien. Almen si vada
Con valor a perir. Valore! e come
Può averne un traditor? Sesto infelice!
Tu traditor! Che orribil nome! Eppure
T‘ affretti a meritarlo. E chi tradisci?
Il più grande, il più giusto, il più clemente
Principe della terra, a cui tu devi
Quanto puoi, quanto sei. Bella mercede
Gli rendi in vero. Ei t’innalzò per farti
Il carnefice suo. M’inghiotta il suolo
Prima ch’io tal divenga. Ah non hò core,
Vitellia, a secondar gli sdegni tui.
Morrei prima del colpo in faccia a lui.
Si desta nel Campidoglio un incendio, che a poco a poco va crescendo.
Arde già il campidoglio.
Un gran tumulto io sento
D‘ armi, e d’armati: Ahi! tardo è il pentimento.
Deh conservate, o Dei,
A Roma il suo splendor
O almeno i giorni miei
Co‘ suoi troncate ancor.
ANNIO.
Amico, dove vai?
SESTO.
Io vado – – – lo saprai
Oh Dio! per mio rossor.
Ascende frettoloso nel campidoglio.
Scena XII.
Annio, poi Servilia, indi publio.
ANNIO.
Io Sesto non intendo, – – –
Ma qui Servilia viene.
SERVILIA.
Ah che tumulto orrendo!
ANNIO.
Fuggi di quà mio bene.
SERVILIA.
Si teme che l‘ incendio
Non sia dal caso nato,
Ma con peggior disegno
Ad arte suscitato.
CORO in distanza.
– – – Ah! – – –
PUBLIO.
V‘ è in Roma una congiura,
Per Tito ahimè pavento:
Di questo tradimento
Chi mai farà l’autor.
CORO.
– – – Ah! – – –
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO.
Le grida ahimè ch’io sento
Mi fan gelar d’orror.
CORO.
– – – Ah! – – –
Scena XIII.
Detti, e Vitellia.
VITELLIA.
Chi per pietade oh Dio!
M’addita dov‘ è Sesto?
(In odio a me son‘ io
Ed‘ ho di me terror.)
SERIO, ANNIO, PUBLIO.
Di questo tradimento
Chi mai sarà l’autor!
CORO.
– – – Ah! ah! – – –
VITELLIO, SERVILIA, ANNIO, PUBLIO.
Le grida ahimè ch‘ io sento
Mi san gelar d’orror.
CORO.
– – – Ah! ah! – – –
Scena XIV.
Detti, e Sesto che scende dal campidolio.
SESTO.
(Ah dove mai m’ascondo?
Apriti, o terra, inghiottimi,
E nel tuo sen profondo
Rinserra un traditor)
VITELLIA.
Sesto! –
SESTO.
Da me che vuoi?
VITELLIA.
Quai sguardi vibri intorno?
SESTO.
Mi fa terror il giorno.
VITELLIA.
Tito? – – –
SESTO.
La nobil alma
Versò dal sen trafitto.
SERVILIA, ANNIO, PUBLIO.
Qual destra rea macchiarsi
Potè d’un tal delitto?
SESTO.
Fù l‘ uom più scellerato,
L’orror della natura,
Fù – – – –
VITELLIA.
Taci forsennato,
Deh non ti palesar.
Ah dunque l’astro è spento
Di pace apportator.
TUTTI E CORO.
Oh nero tradimento
Oh giorno di dolor!
Fine dell‘ Atto prima.
Atto secondo.
Scena prima.
Ritiro delizioso nel soggiorno Imperiale sul colle Palatino.
Annio, e Sesto.
ANNIO.
Sesto, come tu credi,
Augusto non perì. Calma il tuo duolo:
In questo punto ei torna
Illeso dal tumulto.
SESTO.
Eh tu m’inganni.
Io stesso lo mirai cader trafitto
Da scellerato acciaro.
ANNIO.
Dove?
SESTO.
Nel varco angusto, onde si ascende
Quinci presso al Tarpeo.
ANNIO.
Nò: travedesti.
Tra il fumo, e tra il tumulto.
Altri Tito ti parve.
SESTO.
Altri! e chi mai
Delle cesaree vesti
Ardirebbe adornarsi? il sacro alloro,
L’augusto ammanto …
ANNIO.
Ogni argomento è vano
Vive Tito, ed è illeso. In questo istante
Io da lui mi divido.
SESTO.
Oh Dei pietosi!
Oh caro Prence! oh dolce amico! ah lascia
Che a questo sen … Ma non m’inganni?..
ANNIO.
Io merto
Si poca fè? Dunque tu stesso a lui
Corri e’l vedrai.
SESTO.
Ch’io mi presenti a Tito
Dopo averto tradito?
ANNIO.
Tu lo tradisti?
SESTO.
Io del tumulto, io sono
Il primo autor.
ANNIO.
Come! perchè?
SESTO.
Non posso
Dirti di più.
ANNIO.
Sesto è infedele!
SESTO.
Amico,
M’hà perduto un instante. Addio, M’involo
Alla patria per sempre.
Ricordati di me: Tito difendi
De nuove insidie. Io vo ramingo, afflitto
A pianger fra le selve il mio delitto.
ANNIO.
Fermati: oh Dei! pensiamo … Incolpan molti
Di questo incendio il caso; e la congiura
Non è certa fin ora …
SESTO.
Ebben, che vuoi?
ANNIO.
Che tu non parta ancora.
Torna di Tito a lato:
Torna; e l’error passato
Con replicate emenda
Prove di fedeltà.
L’acerbo tuo dolore
E‘ segno manifesto
Che di virtù nel core
L’immagine ti stà.
Torna di Tito a lato
Torna etc.
Scena II.
Sesto, poi Vitellia.
SESTO.
Partir deggio, o restar? Io non ho mente
Per distinguer consigli.
VITELLIA.
Sesto, fuggi, conserva
La tua vita, e’l mio onor. Tu sei perduto
Se alcun ti scopre, e se scoperto sei
Publico è il mio secreto.
SESTO.
In questo seno
Sepolto resterà. Nessuno il seppe.
Tacendolo morrò.
VITELLIA.
Mi fiderei,
Se minor tenerezza
Per Tito in te vedessi. Il suo rigore
Non temo già, la sua clemenza io temo:
Questa ti vincerà.
Scena III.
Publio con Guardie, e detti.
PUBLIO.
Sesto.
SESTO.
Che chiedi?
PUBLIO.
La tua spada.
SESTO.
E perché?
PUBLIO.
Colui, che cinto.
Delle spoglie regali agli occhi tuoi
Cadde trafitto al fuolo, ed ingannato
Dall‘ apparenza tu credesti Tito,
Era Lentulo: il colpo
La vita a lui non tolse: il resto intendi.
Vieni.
VITELLIA.
(Oh colpo fatale!)
SESTO.
Alfin tiranna …
PUBLIO.
Sesto partir conviene. E‘ già raccolto
Per udirti il senato; e non poss’io
Differir di condurti.
SESTO.
Ingrata, addio.
Scena IV.
Detti.
Se al volto mai ti senti
Lieve aura, che s’aggiri,
Gli estremi miei sospiri
Quell‘ alito farà.
VITELLIA.
Per me vien tratto a morte:
Ah dove mai m’ascondo!
Fra poco noto al mondo
Il fallo mio farà.
PUBLIO.
Vieni
SESTO a Vitellia.
Ti sieguo … addio.
VITELLIA.
Senti … mi perdo, oh Dio!
PUBLIO.
Vieni.
VITELLIA.
Che crudeltà!
SESTO in atto di partire.
Rammenta chi t’adora
In questo stato ancora.
Mercede al mio dolore
Sia almen la tua pietà
VITELLIA.
(Mi laceran il core
Rimorso, orror, spavento.
Quel che nell‘ alma io sento
Di duol morir mi fa.)
PUBLIO.
L’acerbo amaro pianto,
Che da‘ suoi lumi piove,
L’anima mi commove,
Ma vana è la pietá.
Publio e Sesto partono con le Guardie, e Vitellia dalla parte opposta.
Scena V.
Gran Sala destinata alle publiche udienze. Trone, Sedia, e Tavolino.
Tito, Publio, Patrizj, Pretoriani, e Popolo.
CORO.
Ah grazie si rendano
Al Sommo Fattor,
Che in Tito del Trono
Salvò lo splendor,
TITO.
Ah nò sventurato
Non sono cotanto,
Se in Roma il mio fato
Si trova compianto,
Se voti per Tito
Si formano ancor.
CORO.
Ah grazie si rendano
Al Sommo Fattor,
Che in Tito del Trono
Salvò lo Splendor.
PUBLIO.
Già de‘ publici giuochi,
Signor, l’ora trascorre. Il di solenne
Sai che non soffre il trascurargli. E‘ tutto
Colà d’intorno alla festiva arena
Il popolo raccolto; e non s’attende
Che la presenza tua. Ciascun sospira
Dopo il noto periglio
Di rivederti salvo. Alla tua Roma
Non differir si bel contento.
TITO.
Andremo,
Publio fra poco. Io non avrei riposo,
Se di Sesto il destino
Pria non sapessi. Avrà il Senato omai
Le sue discolpe udite: avrà scoperto,
Vedrai, ch’egli è innocente; e non dovrebbe
Tardar molto l’avviso.
PUBLIO.
Ah troppo chiaro
Lentulo favellò.
TITO.
Lentulo forse
Cerca al fallo un compagno
Per averlo al perdono. Ei non ignora
Quanto Sesto m’è caro, Arte comune
Questa è de‘ rei: Pur dal senato ancora
Non torna alcun. Che mai sarà? Va: chiedi
Che si fa, che si attende? Io tutto voglio
Saper pria di partir.
PUBLIO.
Vado; ma temo
Di non tornar nunzio felice.
TITO.
E puoi
Creder Sesto infedele? Io dal mio core
Il suo misuro; e un impossibil parmi
Ch’egli m’abbia tradito.
PUBLIO.
Ma, Signor, non han tutti il cor di Tito.
Tardi s’avvede
D’un tradimento
Chi mai di sede
Mancar non sà.
Un cor verace
Pieno d’onore
Non è portento
Se ogn‘ altro core
Crede incapace
D’infedeltà.
Parte.
Scena VI.
Tito, poi Annio.
TITO.
Nò: cosi scellerato
Il mio Sesto non credo. Io l’hò veduto
Non sol fido, ed amico;
Ma tenero per me. Tanto cambiarsi
Un‘ alma non potrebbe. Annio che rechi?
L’innocenza di Sesto?
Consolami.
ANNIO.
Signor, pietà per lui
Ad implorar io vengo.
Scena VII.
Detti, Publio con foglio.
PUBLIO.
Cesare, nol diss’io. Sesto è l’autore
Della trama crudel.
TITO.
Publio, ed è vero?
PUBLIO.
Pur troppo: ci di sua bocca
Tutto affermò. Co‘ complici il Senato
Alle fiere il condanna. Ecco il decreto
Terribile, ma giusto:
Dà il foglio a Tito.
Nè vi manca, o Signor, che il nome Augusto.
TITO si getta a sedere.
Onnipottenti Dei!
ANNIO.
Ah pietofo Monarca – – –
TITO.
Annio, per ora
Lasciami in pace.
PUBLIO.
Alla gran pompa unite
Sai che le genti omai …
TITO.
Lo sò: partite.
ANNIO.
Deh perdona, s’io parlo
In favor d’un insano.
Della mia cara sposa egli è german.
Tu fosti tradito:
Ei degno è di morte:
Ma il core di Tito
Pur lascia sperar.
Deh prendi consiglio.
Signor, dal tuo core:
Il nostro dolore
Ti degna mirar.
Publio ed Annio partono.
Scena VIII.
Tito solo a sedere.
Che orror! che tradimento!
Che nera infedeltà! fingersi amico
Essermi sempre al fianco: ogni momento
Esiger dal mio core
Qualche prova d’amore, e starmi intanto
Preparando la morte! ed io sospendo
Ancor la pena? e la sentenza ancora
Non segno? – – Ah, sì lo scellerato mora.
Prende la penna per sottoscrivere.
Mora! … Ma senza udirlo
Mando Sesto a morir? si: già l’intese
Abbastanza il Senato. E s’egli avesse
Qualche arcano a svelarmi? (olà.) s’aseolti,
Depone la penna: intanto esce una Guardia.
E poi vada al supplicio. (A me si guidi
Sesto.) E pur di chi regna
Infelice il destino!
La Guardia parte.
A noi si nega
Ciò che a‘ più bassi è dato. In mezzo al bosco
Quel villanel mendico, a cui circonda
Ruvida lana il rozzo fianco, a cui
E mal fido riparo
Dall‘ ingiurie del ciel tugurio informe,
Placido i sonni dorme,
Passa tranquillo i dì. Molto non brama:
Sà chi l’odia, e chi l’ama: unito e solo
Torna sicuro alla foresta, al monte;
E vede il core a chiascheduno in fronte.
Noi fra tante ricchezze
Sempre incerti viviam: che in faccia a noi
La speranza, o il timore
Sulla fronte d’ognun trasforma il core.
Chi dall‘ infido amico (olà) chi mai
Questo temer dovea?
Scena IX.
Publio, e Tito.
TITO.
Ma, Publio, ancora
Sesto non viene?
PUBLIO.
Ad eseguire il cenno
Gia‘ volaro i custodi.
TITO.
Io non comprendo
Un si lungo tardar.
PUBLIO.
Pochi momenti
Sono scorsi, o Signor.
TITO.
Vanne tu stesso:
Affrettalo.
PUBLIO.
Ubbidisco: .. i tuoi Littori
Veggonsi comparir. Sesto dovrebbe
Non molto esser lontano. Eccolo.
TITO.
Ingrato!
All’udir che s’appressa
Già mi parla a suo prò l’affetto antico.
Ma nò: trovi il suo Prence, e non l’amico.
Scena X.
Tito, Publio, Sesto, e custodi. Sesto entrato appena, si ferma.
SESTO.
(Quello di Tito è il volto!..
Ah dove oh stelle! è andata
La sua dolcezza usata?
Or ei mi fà tremar.)
TITO.
(Eterni Dei! di Sesto
Dunque il sembiante è questo?
Oh come può un delitto
Un volto trasformar!)
PUBLIO.
(Mille diversi affetti
In Tito guerra fanno.
S’ei prova un tal affanno,
Lo seguita ad amar.)
TITO.
Avvicinati.
SESTO.
(Oh voce
Che piombami sul core)
TITO.
Non odi?
SESTO.
Di sudore
Mi sento oh Dio! bagnar.
TITO, PUBLIO.
(Palpita il traditore,
SESTO, TITO, PUBLIO.
Né gli occhi ardisce alzar.)
SESTO.
(Oh Dio! non può chi more
Non può di più penar.)
TITO.
(Eppur mi fa pietà.) Publio, Custodi,
Lasciatemi con lui.
Publio, e le guardia partono.
SESTO.
(Nò, di quel volto
Non hò costanza a sostener l’impero.)
TITO depone l’aria maestosa.
Ah Sesto è dunque vero?
Dunque vuoi la mia morte? In che t’offese
Il tuo Prence, il tuo Padre,
Il tuo Benefattor? Se Tito Augusto
Hai potuto obbliar, di Tito amico
Come non ti sovvenne? Il premio è questo
Della tenera cura,
Ch’ebbi sempre di te? Di chi fidarmi
In avvenir potrò, se giunse oh Dei!
Anche Sesto a tradirmi? E lo potesti?
E’l cor te lo sofferse?
SESTO s’ingnocchia.
Ah Tito, ah mio
Clementissimo Prence,
Non più, non più: se tu veder potessi
Questo misero cor; spergiuro, ingrato
Pur ti farei pietà. Tutte ho sugli occhi
Tutte le colpe mie: tutti rammento
I beneficj tuoi: soffrir non posso,
Nè l’idea di me stesso,
Né la presenza tua. Quel sacro volto,
La voce tua, la tua clemenza istesa
Diventò mio supplicio. Affretta almeno,
Affretta il mio morir. Toglimi presto
Questa vita infedel: lascia, ch’io versi,
Se piètoso esser vuoi,
Questo perfido sangue ai piedi tuoi.
TITO.
Sorgi, infelice.
Sesto si leva.
(il contenersi è pena
A quel tenero pianto.) Or vedi a quale
Lacrimevole stato
Un delitto riduce, una sfrenata
Avidità d’Impero! E che sperasti
Di trovar mai nel Trono? Il sommo forse
D’ogni contento? Ah sconsigliato! osserva
Quai frutti io ne raccolgo,
E bramalo, se puoi.
SESTO.
No, questa brama
Non fu, che mi sedusso.
TITO.
Dunque che fù?
SESTO.
La debolezza mia
La mia fatalita.
TITO.
Più chiaro almeno
Spiegati.
SESTO.
Oh Dio! non posso.
TITO.
Odimi, o Sesto:
Siam soli: il tuo Sovrano
Non è presente. Apri il tuo core a Tito:
Confidati all‘ amico. Io ti prometto,
Che Augusto nol saprà. Del tuo delitto
Dì la prima cagion. Cerchiamo insieme
Una via di scusarti. Io ne sarei
Forse di te più lieto.
SESTO.
Ah la mia colpa
Non hà difesa.
TITO.
In contraccambio almeno
D‘ amicizia lo chiedo. Io non celai
Alla tua fede i più gelosi arcani:
Merito ben che Sesto
Mi fidi un suo segreto.
SESTO.
(Ecco una nuova
Specie di pena! o dispiacere a Tito,
O Vitellia accusar)
TITO incomincia a turbarsi.
Dubiti ancora?
Ma, Sesto, mi ferisci
Nel più vivo del cor. Vedi, che troppo
Tu l’amicizia oltraggi
Con questo diffidar.
Con impazienza.
Pensaci: oppaga
Il mio giusto desio.
SESTO con dispersatione.
(Ma qual astro splendeva al nascer mio!)
TITO.
E taci? E non rispondi? Ah giacchè puoi
Tanto abusar di mia pietà.
SESTO.
Signore – – –
Sappi dunque – – – (che fò?)
TITO.
Siegui.
SESTO.
Ma quando
Finirò di penar?
TITO.
Parla una volta:
Che mi volevi dir?
SESTO.
Ch’io son l’oggetto
Dell‘ ira degli Dei: che la mia sorte
Non ho più forza a tollérar: ch’io stesso
Traditor mi confesso, empio mi chiamo:
Ch’io merito la morte, e ch’io la bramo.
TITO.
Sconoscente! e l’avrai.
Alle guardie, che saranno uscite.
Custodi, il reo
Toglietemi d’innanzi
SESTO.
Il bacio estremo
Su quella invitta man.
TITO.
Parti: non è più tempo
Or tuo giudice sono.
SESTO.
Ah sia questo, Signor, l‘ ultimo dono,
Deh per questo instante solo
Ti ricorda il primo amor.
Che morir mi fa di duolo
Il tuo sdegno il tuo rigor.
Di pietade indegno è vero,
Sol spirar io deggio orror.
Pur saresti men severo,
Se vedessi questo cor.
Disperato vado a morte;
Ma il morir non mi spaventa.
Il pensiero mi tormenta
Che fui teco un traditor.
(Tanto affanno soffre un core,
Nè si more di dolor!)
Parte.
Scena XI.
Tito solo.
Ove l’intese mai più contumace
Infedelta? deggio alla mia negletta
Disprezzata clemenza una vendetta.
Vendetta! – – – Il cor di Tito.
Tali sensi produce? – – Eh viva – – – in vano
Parlar dunque le leggi? Io lor custode
L’eseguisco cosi? Di Sesto amico.
Non sà Tito scordarsi? –
Siede.
– Ogn‘ altro affetto
D’amicizia, e pietà taccia per ora
Sesto è reo: Sesto mora.
Sotta scrive.
Eccoci aspersi
Di cittadino sangue, e s’incomincia
Dal sangue d’un amico. Or che diranno
I Posteri di noi? Diran, che in Tito
Si stancò la clemenza,
Come in Silla, e in Augusto
La crudeltà: che Tito era l’offeso,
E che le proprie offese,
Senza ingiuria del giusto,
Ben poteva obbliar. Ma dunque faccio
Si gran forza al mio cor. Nè almen sicuro
Sarò ch’altri l’approvi? Ah non si lasci
Il solito cammin. – – – Viva t’amico!
Lacera il foglio.
Benchè infedele. E se accusarmi il mondo
Vuol pur di qualche errore,
M’accusi di pietà non di rigore.
Gatta il foglio lacerato.
Publio.
Scena XII.
Detto, e Publio.
PUBLIO.
Cesare.
TITO.
Andiamo
Al popolo, che attende.
PUBLIO.
E Sesto?
TITO.
E Sesto.
Venga all‘ arena ancor.
PUBLIO.
Dunque il suo fato? – – –
TITO.
Si, Publio, è già deciso.
PUBLIO.
(Oh sventurato!)
TITO.
Se all‘ Impero, amici Dei,
Necessario è un cor severo;
O togliete a me l’impero,
O a me date un altro cor.
Se la fè dè regni miei
Coll‘ amor non assicure,
D’una fede non mi curo,
Che sia frutto del timor.
Parte.
Scena XIII.
Vitellia uscendo dalla porta opposita, richiama Publio, che seguita Tito.
VITELLIA.
Publio, ascolta.
PUBLIO in atto di partire.
Perdona
Deggio a Cesare appresso.
Andar.
VITELLIA.
Dove?
PUBLIO.
All‘ arena
VITELLIA.
E Sesto?
PUBLIO.
Anch‘ esso.
VITELLIA.
Dunque morrà?
PUBLIO.
Pur troppo.
VITELLIA.
(Ohimè!) con Tito
Sesto ha parlato?
PUBLIO.
E lungamente.
VITELLIA.
E sai
Quel, ch’ei dicesse?
PUBLIO.
No: Solo con lui
Restar Cesare volle: escluso io sui.
Parte.
Scena XIV.
Vitellia, e poi Annio, e Servilia da diverse parti.
VITELLIA.
Non giova lusingarsi:
Sesto già mi scoperse. A Publio istesso
Si conosce sul volto. Ei non fù mai
Con me si ritenuto. Ei fugge: ei teme
Di rastar meco. Ah secondato avessi
Gl’impulsi del mio cor. Per tempo a Tito
Dovea svelarmi, e confessar l’errore.
Sempre in bocca d’un reo, che la detesta,
Scema d’orror la colpa. Or questo ancora
Tardi saria. Seppe il delitto Augusto,
E non da me. Questa ragione istessa
Fa più grave …
SERVILIA.
Ah Vitellia!
ANNIO.
Ah Principessa!
SERVILIA.
Il misero germano
ANNIO.
Il caro amico.
SERVILIA.
E‘ condotto a morir.
ANNIO.
Fra poco in faccia
Di Roma spettatrice
Delle fere farà pasto infelice.
VITELLIA.
Ma che posso per lui.
SERVILIA.
Tutto. A‘ tuoi prieghi
Tito lo donerà
ANNIO.
Non può negarlo
Alla novella Augusta.
VITELLIA.
Annio, non sono
Augusta ancor
ANNIO.
Pria che tramonti il sole
Tito sarà tuo sposo. Or, me presente,
Per le pompe festive il cenno ci diede.
VITELLIA.
(Dunque Sesto ha taciuto! oh amore! oh fede!)
Annio, Servilia, Andiam. (Ma dove coro
Cosi senza pensar?) Partite, Amici,
Vi seguirò.
ANNIO.
Ma se d’un tardo ajuto
Sesto fidar si dee, Sesto è perduto.
Parte.
SERVILIA.
Andiam. Quell‘ infelice
T’amò più di se stesso: avea fra labbri
Sempre il tuo nome. Impallidia qualora
Si perlava di te. Tu piangi!
VITELLIA.
Ah parti.
SERVILIA.
Ma tu perchè restar? Vitellia ah parmi. – – –
VITELLIA.
Oh Dei! parti: verrò: non tormentarmi
SERVILIA.
S‘ altro che lacrime
Per lui non tenti:
Tutto il tuo piangere
Non gioverà.
A quest‘ inutile
Pietà che senti,
Oh quanto è simile
La crudeltà.
Parte.
Scena XV.
Vitellia sola.
VITELLIA.
Ecco il punto; o Vitellia,
D’esaminar la tua costanza: Avrai
Valor che basti a rimirar esangne
Io tuo Sesto fedel? Sesto, che t’ama
Più della vita fua? Che per tua colpa
Divenne reo? Che t’ubbidì crudele?
Che ingiusta t’adorò? Che in faccia a morte
Si gran fede ti serba, e tu frattanto
Non ignota a te stessa, andrai tranquilla
Al talamo d’Augusto? Ah mi vedrei
Sempre Sesto d’intorno; e l’aure, ci sassi
Temerei che loquaci
Mi scoprissero a Tito. A‘ piedi suoi
Vadasi il tutto a palesar. Si scemi
Il delitto di Sesto,
Se seusar uon si può, col fallo mio.
D’Imperi, e d’imenei speranze addio.
Non più di fiori
Vaghe catene
Discendè Imene
Ad intrecciar.
Stretta fra barbare
Aspre ritorte
Veggo la morte
Ver me avanzar.
Infelice! qual orrore!
Ah di me che si dirà.
Chi vedesse il mio dolore,
Pur avria di me pietà.
Parte.
Scena XVI.
Luogo magnifico, che introduce a vasto Anfiteatro, da cui per diversi archi scuopresi la parte interna. Si vedranno già nell‘ arena i complici della congiura condannati alle fiere.
Nel tempo, che si canta il Coro, preceduto da‘ Littori, circondato da‘ Senatori, e Patrizi Romani, e seguito da‘ Pretoriani esce Tito, e dopo Annio, e Servilia da diverse parti.
CORO.
Che del Ciel, che degli Dei
Tu il pensier, l’amor tu sei,
Grand‘ Eroe nel giro angusto
Si mostrò di questo dì.
Ma cagion di maraviglia
Non è già, felice Augusto,
Che gli Dei chi lor somiglia,
Custodiscano cosi.
TITO.
Pria che principio a‘ lieti
Spettacoli si dia, custodi, innanzi
Conducetemi il reo. (Più di perdono
Speme non hà. Quanto aspettato meno
Più caro esser gli dee).
ANNIO.
Pietà Signore.
SERVILIA.
Signor pietà.
TITO.
Se a chiederla venite
Per Sesto, è tardi. E‘ il suo destin deciso
ANNIO.
E si tranquillo in viso
Lo condanni a morir?
SERVILIA.
Di Tito il core
Come il dolce perdè costume antico?
TITO.
Ei si appressa: tacete.
SERVILIA.
Oh Sesto!
ANNIO.
Oh amico!
Scena XVII.
Publio e Sesto fra Littori, poi Vitellia e detti.
TITO.
Sesto, de‘ tuoi delitti
Tu sai la serie, e sai
Qual pena ti si dee. Roma seonvolta,
L’offesa Maestà, le leggi offese
L’amicizia tradita, il mondo, il cielo
Voglion la morte tua. De‘ tradimenti
Sai pur ch’io son l’unico oggetto: or senti.
VITELLIA.
Eccoti, eccelso Augusto,
Eccoti al piè la più confusa – – –
S’inginocchia.
TITO.
Ah sorgi,
Che fai? che brami?
VITELLIA.
Io ti conduco innanzi
L’autor dell‘ empia trama.
TITO.
Ov‘ è? Chi mai
Preparò tante insidie al viver mio?
VITELLIA.
Nol crederai.
TITO.
Perchè?
VITELLIA.
Perché son io.
TITO.
Tu ancora?
SESTO, SERVILIA.
Oh Stelle!
ANNIO, PUBLIO.
Oh Numi!
TITO.
E quanti mai
Quanti siete a tradirmi?
VITELLIA.
Io la più rea
Son di ciascuno! Io meditai la trama:
Il più fedele amico
Io ti sedussi: io del suo cieco amore
A tuo danno abusai.
TITO.
Ma del tuo sdegno
Chi fu cagion?
VITELLIA.
La tua bontà. Credei
Che questa fosse amor. La destra e’l trono
Da te sperava in dono, e poi negletta
Restai più volte, e procurai vendetta.
TITO.
Ma che giorno è mai questo? Al punto stesso,
Che assolvo un reo, ne scopro un altro? e quando
Troverò, giusti Numi,
Un‘ anima fedel? Congiuran gli astri,
Cred’io, per obbligarmi a mio dispetto
A diventar crudel. No: non avranno
Questo trionso. A sostener la gara
Già m’impegnò la mia virtù. Vediamo,
Se più costante sia
L’altrui perfidia, o la clemenza mia:
Olà: Sesto si sciolga: abbian di nuovo
Lentulo, e i suoi seguaci
E vita, e libertà: sia noto a Roma,
Ch’io son lo stesso, e ch’io.
Tutto sò, tutti assolvo, e tutto obblio.
SESTO, VITELLIA.
Tu è ver, m’assolvì, Augusto,
Ma non m’assolve il core,
Che piangerà l’errore,
Fin chè memoria avrà.
TITO.
Il vero pentimento,
Di cui tu sei capace,
Val più d’una verace
Costante fedeltà.
SERVILIA, ANNIO.
Oh generoso! oh grande!
E chi mai giunse a tanto?
Mi trae dagli occhi il pianto
L’eccelsa sua bontà.
TUTTI.
Eterni Dei, vegliate
Sui sacri giorni suoi:
A Roma in lui ferbate
La sua felicità.
TITO.
Troncate, eterni Dei,
Troncate i giorni miei
Quel dì, che il ben di Roma
Mia cura non farà.
TUTTI E CORO.
Eterni Dei, vegliate
Sui sacri giorni suoi.
A Roma in lui ferbate
La sua felicità.
Fine.