Jacopo Peri
Dafne
Libretto von Ottavio Rinuccini
Uraufführung: Karneval 1597, Palazzo Corsi, Florenz
Interlocutori
Ovidio, che fa il prologo
Venere
Amore
Apollo
Dafne
Nunzio
Pastori
Ninfe
Coro
Prologo
OVIDIO.
Da‘ fortunati campi, ove immortali
godonsi a l’ombra de‘ frondosi mirti
i graditi dal ciel felici spirti,
mostromi in questa notte a voi, mortali.
Quel mi son io, che su la dotta lira
cantai le fiamme de‘ celesti amanti,
e i trasformati lor vari sembianti
soave sì, ch’il mondo ancor m’ammira.
Indi l’arte insegnai come si deste
in un gelato sen fiamma d’amore,
e come in libertà ritorni un core
cui son d’amor le fiamme aspre e moleste.
Ma qual par che tra l’ombre e ‚l ciel rischiari
nova luce e splendor di rai celesti?
Qual maestà vegg’io? Son forse questi
gli eccelsi Augusti miei felici e chiari?
Ah, riconosco io ben l’alta Regina,
gloria e splendor de‘ Lotaringi Regi,
il cui nome immortal, gli alteri fregi
celebra ‚l mondo, e ‚l nobil Arno inchina.
Seguendo di giovar l’antico stile,
con chiaro esempio a dimostrarvi piglio
quanto sia, Donne e Cavalier, periglio
la potenza d’Amor recarsi a vile.
Vedete lagrimar quel Dio, ch’in cielo
reca in bel carro d’or la luce e ‚l giorno,
e de l’amata Ninfa il lume adorno
adorar dentro al trasformato stelo.
Scena prima
Coro, Apollo.
CORO.
Tra queste ombre segrete
s’inselva e si nasconde
l’orrida belva: cauti il piè muovete,
Ninfe e Pastori; ah, non scotete fronde.
PASTORI.
Dunque senza timor, senza spavento,
pe‘ nostri dolci campi
non guiderem mai più gregge od armento?
CORO.
Giove immortal, che tra baleni e lampi
scoti la terra e ‚l cielo,
màndane o fiamma o telo
che da mostro sì rio n’affidi e scampi.
NINFE.
E quando mai per queste piagge e quelle
fronda corrêmo o fiore,
misere verginelle,
che di terror non ci si agghiacci ‚l core?
CORO.
Ebra di sangue in questo oscuro bosco
giacea pur dianzi la terribil fera. (Era)
Dunque più non attosca
nostre belle campagne? altrove è gita? (Ita)
Farà ritorno più per questi poggi? (Oggi)
Oimè! chi n’assecura
s’oggi tornar pur deve il mostro rio? (Io)
Chi sei tu, che n’affidi e ne console? (Sole)
Il Sol tu sei? tu sei di Delo il Dio? (Dio)
Hai l’arco teco per ferirlo, Apollo? (Hollo)
S’hai l’arco tuo, saetta infin che mora
questo mostro crudel che ne divora.
Qui Apollo mette mano a l’arco e saetta il Fitone.
APOLLO.
Pur giacque estinto al fine
in su ‚l terren sanguigno
da l’invitt’arco mio l’angue maligno.
Securi itene al bosco,
Ninfe e Pastori, ite securi al prato:
non più di fiamma e tosco
infetta ‚l puro ciel l’orribil fiato.
Tornin le belle rose
ne le guancie amorose;
torni tranquillo il cor, sereno ‚l volto:
io l’alma e ‚l fiato al crudo serpe ho tolto.
CORO.
Almo Dio, che ‚l carro ardente
per lo ciel volgendo intorno
vesti ‚l dì d’un aureo manto,
se tra l’ombra orrida algente
splende il ciel di lume adorno,
è pur tua la gloria e ‚l vanto.
Se germoglian frondi e fiori,
selve e prati, e rinnovella
l’ampia terra il suo bel manto,
se de‘ suoi dolci tesori
ogni pianta si fa bella,
è pur tua la gloria e ‚l vanto.
Per te vive e per te gode
quanto scerne occhio mortale,
o Rettor del carro eterno:
ma si taccia ogn’altra lode;
sol de l’arco e de lo strale
voli il grido al ciel superno.
Nobil vanto! il fier dragone
di velen, di fiamme armato
su ‚l terren versat’ha l’alma:
per trecciar fregi e corone
al bel crin di raggi ornato
qual fia degno edera o palma?
Scena seconda
Venere, Amore, Apollo.
AMORE.
Che tu vadia cercando o giglio o rosa
per infiorarti i crini,
non ti vo‘ creder, no, madre vezzosa.
VENERE.
Che cerco dunque, o figlio?
AMORE.
Rosa non già, né giglio:
cerchi d’Adone, o d’altro vie più bello
leggiadro pastorello.
VENERE.
Ah tristo, tristo! Ecco ‚l signor di Delo:
pe‘ boschi oggi se ’n van gli dèi del cielo.
APOLLO.
Dimmi possente arciero,
qual fera attendi o qual serpente al varco
c’hai la faretra e l’arco?
AMORE.
Se da quest’arco mio
non fu Fitone ucciso,
arcier non son però degno di riso,
e son del cielo, Apollo, un nume anch’io.
APOLLO.
Sollo; ma quando scocchi
l’arco, sbendi tu gli occhi
o ferisci a l’oscuro, arciero esperto?
AMORE.
S’hai di saper desìo
d’un cieco arcier le prove,
chiedilo al Re de l’onde,
chiedilo in cielo a Giove,
e tra l’ombre profonde
del regno orrido oscuro
chiedi, chiedi a Pluton, s’ei fu sicuro!
APOLLO.
Se in cielo, in mare, in terra
Amor trionfi in guerra
dove dove m’ascondo?
Chi novo ciel m’insegna, o novo mondo?
AMORE.
So ben che non paventi
la forza d’un fanciullo,
saettator di mostri e di serpenti;
ma, prendi pur di me giuoco e trastullo!
APOLLO.
Ah, tu t’adiri a torto:
o mi perdona, Amore,
o, se mi vuoi ferir, risparmia ‚l core.
VENERE.
Vedrai, che grave risco è scherzar seco,
bench’ei sia pargoletto, ignudo e cieco.
AMORE.
Se in quel superbo core
non fo piaga mortale,
più tuo figlio non son, non sono Amore.
VENERE.
Amato pargoletto,
come giust’ira e sdegno
oggi t’infiamma il petto;
sì spero al nostro regno
veder l’altero Dio servo e suggetto.
AMORE.
Non avrò posa mai, non avrò pace
fin ch’io no ‚l vegga lagrimar ferito
da quest’arco schernito.
Madre, ben mi dispiace
di lasciarti soletta,
ma toglie assai d’onor tarda vendetta.
VENERE.
Vanne pur lieto, o figlio;
lieta rimango anch’io,
che troppo è gran periglio
averti irato a canto:
per queste selve intanto
farò dolce soggiorno;
poscia faremo insieme al ciel ritorno.
AMORE.
Chi da‘ lacci d’amor vive disciolto
de la sua libertà goda pur lieto,
superbo no: d’oscura nube involto
stassi per noi del ciel l’alto decreto;
s’or non senti d’amor poco né molto,
avrai dimani il cor turbato e ’nqueto.
E signor proverai crudo e severo
Amor, che dianzi disprezzasti altero.
CORO.
Nudo Arcier, che l’arco tendi,
che velat’ambe le ciglia,
ammirabil meraviglia!,
mortalmente i cori offendi,
se così t’infiammi e ’ncendi
verso un Dio, quai saran poi
sovra noi gli sdegni tuoi?
D’un leggiadro giovinetto
già de‘ boschi onore e gloria
suona ancor fresca memoria
che m’agghiaccia ‚l cor nel petto,
qual per entro un ruscelletto
sé mirando, arse d’amore,
e tornò piangendo in fiore.
Ogni ninfa in doglie e ’n pianti
posto avea per sua bellezza,
ma del cor l’aspra durezza
non piegâr l’afflitte amanti:
quelle voci e quei sembianti
ch’avrian mosso un cor di fera,
schernìa pur quell’alma altera.
Una al pianto in abbandono
lagrimando uscì di vita,
che fu poi per gli antri udita
rimbombar nud’ombra e suono:
or qui più non ha perdono,
più non soffre Amor irato
l’impietà del core ingrato.
Punto ‚l sen di piaga acerba
da quell’armi ond’altri ancise,
non pria fine al pianto ei mise
che un bel fior si fe‘ sull’erba.
O beltà cruda e superba,
non fia già ch’invan m’insegni
come irato Amor si sdegni.
Scena terza
Apollo, Dafne.
DAFNE.
Del fuggitivo cervo
quest’è pur orma impressa:
fusse almen qui vicin la fera stessa!
APOLLO.
Qual d’un bel ciglio adorno
spira lume gentil ch’al cor mi giunge?
DAFNE.
Certo non molto lunge,
se ‚l desir non m’inganna; è qui d’intorno:
or vedrò se ‚l mio stral va dritto e punge.
APOLLO.
Ah, ben sent’io se son pungenti i dardi
de‘ tuoi soavi sguardi!
Dimmi, qual tu ti sei,
o ninfa o dèa, ché tale
rassembri a gli occhi miei,
che cerchi armata di faretra e strale?
DAFNE.
Seguendo io me ne giva
per quest’ombrosa selva
i passi e l’orme di fugace belva,
e son donna mortal, non del ciel diva.
APOLLO.
Se cotal luce splende
in bellezza mortale,
del ciel più non mi cale.
DAFNE.
Dove mi volgo? dove
moverò ‚l passo che la fera trove?
APOLLO.
Senza che dardo avventi o l’arco scocchi,
valli cercando o monti,
far nobil preda puoi co‘ tuoi begli occhi.
DAFNE.
Altra preda non bramo, altro diletto
che fere e selve; e son contenta e lieta
se damma errante o fer cignal saetto.
APOLLO.
Ah, che non sol di fere
saettatrice sei,
ma contro a gli alti Iddei
saette avventi da le luci altere.
DAFNE.
Del ciel gli eterni Numi
umile onoro e còlo,
e per le selve solo
pongo su l’arco i dardi:
ma tu per giuoco il mio cammin ritardi.
APOLLO.
Deh! non sdegnar che teco
compagno venga: anch’io so tender l’arco,
e, quando non ti spiaccia,
farem d’accordo dilettosa caccia.
DAFNE.
Altri che l’arco mio
non vo‘ compagno: addio.
APOLLO.
Oimè! non tanta fretta:
aspetta, Ninfa, aspetta.
Scena quarta
Amore, Venere.
AMORE.
Ve‘, che ti giunsi al varco:
oh impara a disprezzar l’etate e l’arco!
Or su de l’alto cielo
mirin gli eterni Dei
le glorie e i vanti miei;
e voi quaggiù, mortali,
celebrate il valor de gli aurei strali.
VENERE.
Figlio, dolce diletto
del cor, de gli occhi miei,
come sì lieto e baldanzoso sei?
Dillo, bel pargoletto,
dimmelo, Amor, che anch’io
senta le gioie tue dentr’al cor mio.
AMORE.
Madre, di gemme e d’oro
un bel carro m’appresta;
ponmi su l’aurea testa
nobil fregio d’onor, cerchio frondoso;
vegganmi oggi gli Dei de l’alto cielo
trïonfator pomposo.
Quel Dio, ch’intorno gira
il carro luminoso,
vinto da l’arco mio piange e sospira.
VENERE.
Qual degl’Iddei del cielo
de la faretra invitta
non sentì dentr’al cor pungente telo?
Io, che madre ti sono, ahi quanto, ahi quanto,
il molle sen trafitta,
e ’n ciel e in terra ho lagrimato e pianto!
AMORE.
S’hai lagrimato e pianto, hai riso ancora.
Dimmi, piangevi allora
che del Fabro geloso
non potesti schivar l’inganno ascoso?
VENERE.
Taci, taci, bel figlio;
pur troppo, e tu lo sai,
il mio bel viso allor si fe‘ vermiglio:
ma di tornare al cielo è tempo ormai.
CORO.
Non si nasconde in selva
sì dispietata belva,
né su per l’alto polo
spiega le penne a volo augel solingo,
né per le piagge ondose,
tra le fere squamose alberga core
che non senta d’amore.
Arder miriam le piante
l’una de l’altra amante,
e gli elementi ancora
bel foco arde e innamora, e ’nsieme accorda:
sol contro gli aurei strali
i semplici mortali armano il core
che non senta d’amore.
Questi l’albe e le sere
perde cacciando fere,
e quei, s’al ciel rimbomba
di Marte altera tromba, a l’armi corre;
altri la mente vaga
di mortal fasto appaga e ’ndura il core
che non senta d’amore.
Ma se d’un ciglio adorno
mira le fiamme un giorno,
o, pregio d’un bel volto,
scherzar con l’aure sciolto un capel d’oro,
già vinto ogni altro affetto,
prova ch’in uman petto non è core
che non senta d’amore.
Scena quinta
Nunzio, Coro.
NUNZIO.
Qual nova meraviglia
veduto han gli occhi miei?
O sempiterni Dei,
che per lo ciel volgete
nostre sorti mortali o triste o liete,
fu castigo o pietate
cangiar l’alma beltate?
CORO.
Pastor, deh narra a noi
le nove meraviglie,
che visto han gli occhi tuoi.
NUNZIO.
Non senza trar dal core
lagrime di dolore
udirete, Pastori,
il destin de la bella cacciatrice
pur troppo miserabile e ’nfelice.
CORO.
Di‘ pur, saggio Pastore,
che non senza dolore
lagrima per pietate un gentil core.
NUNZIO.
Quando la bella ninfa,
sprezzando i prieghi del celeste amante,
vidi che per fuggir movea le piante,
da voi mi tolsi anch’io
l’orme seguendo de l’acceso Dio.
Ella, quasi cervetta
che innanzi a crudo veltro il passo affretta,
fuggia veloce, e spesso
si volgeva a mirar se lungi o presso
avea l’odiato amante;
ma, fatt’accorta omai
ch’era ogni fuga in vano,
i lagrimosi rai
al ciel rivolse e l’una e l’altra mano,
e ’n lamentevol suono,
ch’io non udii, ché troppo era lontano,
sciolse la lingua: et ecco in un momento
che l’uno e l’altro leggiadretto piede,
che pur dianzi al fuggir parve aura o vento,
fatto immobil si vede,
di selvatica scorza insieme avvinto,
e le braccia e le palme al ciel distese
veste selvaggia fronde:
le crespe chiome bionde
più non riveggo e ‚l volto e ‚l bianco petto;
ma dal gentile aspetto
ogni sembianza si dilegua e perde;
sol miro un arboscel fiorito e verde.
CORO.
O miserabil caso, o destin rio!
Che fe‘, che disse allora
l’innamorato Dio?
NUNZIO.
A l’alta novitate
fermò repente il passo,
e, confuso d’orrore e di pietate,
restò per lungo spazio immobil sasso.
Poscia a le frondi amate,
levando gli occhi sospirosi e molli,
stese le braccia e ‚l nobil tronco avvinse
e mille volte ribaciollo e strinse.
Piangean d’intorno le campagne e i colli,
sospiravan pietosi e l’aure e i venti;
et ei nel gran dolore
sciogliea sì mesti accenti,
ch’io sentii per pietà mancarmi il core.
Ma, vedete lui stesso
che verso noi se ’n viene
tutto carco di pene:
deh, come fuor del luminoso volto
traspare il duol c’ha dentr’al petto accolto!
Scena sesta
Apollo, Coro.
APOLLO.
Dunque ruvida scorza
chiuderà sempre la beltà celeste?
Lumi, voi che vedeste
l’alta beltà, che a lagrimar vi sforza,
affisatevi pure in questa fronde:
qui posa, e qui s’asconde
il mio bene, il mio core, il mio tesoro,
per cui, ben ch’immortal, languisco e moro.
Ninfa sdegnosa e schiva,
che fuggendo l’amor d’un Dio del cielo,
cangiasti in verde lauro il tuo bel velo,
non fia però ch’io non t’onori et ami,
ma sempre al mio crin d’oro
faran ghirlanda le tue fronde e‘ rami.
Ma deh! se in questa fronde odi il mio pianto,
senti la nobil cetra,
quai doni a te dal ciel cantando impetra:
non curi la mia pianta o fiamma o gelo,
sian del vivo smeraldo eterni i pregi,
né l’offenda già mai l’ira del cielo.
I bei cigni di Dirce e i sommi regi
di verdeggianti rami al crin famoso
portin, segno d’onor, ghirlande e fregi.
Gregge mai né pastor fia che noioso
del verde manto suo la spogli e prive:
a la grat’ombra il dì lieto e gioioso
traggan dolce cantando e ninfe e dive.
CORO.
Bella Ninfa fuggitiva,
sciolta e priva
del mortal tuo nobil velo,
godi pur pianta novella,
casta e bella,
cara al mondo, e cara al cielo.
Tu non curi e nembi, e tuoni,
tu coroni
cigni, regi, e dèi celesti:
geli il cielo o ’nfiammi e scaldi;
di smeraldi
lieta ogn’or t’adoni e vesti.
Godi pur de‘ doni egregi;
i tuoi pregi
non t’invidio e non desio:
io, se mai d’amor m’assale
aureo strale,
non vo‘ guerra con un Dio.
Se a fuggir movo le piante
vero amante,
contra amor cruda e superba,
venir possa il mio crin d’auro
non pur lauro,
ma qual è più miser’erba.
Sia vil canna il mio crin biondo
che l’immondo
gregge ogn’or schianti e dirame;
sia vil fien, ch’a i crudi denti
de gli armenti
tragga ogn’or l’avida fame.
Ma s’a‘ preghi sospirosi,
amorosi,
di pietà sfavillo et ardo,
s’io prometto a l’altrui pene
dolce spene
con un riso e con un guardo,
non soffrir, cortese Amore,
che ‚l mio ardore
prenda a scherno alma gelata,
non soffrir ch’in piaggia o ’n lido
cor infido
m’abbandoni innamorata.
Fa‘ ch’al foco de‘ miei lumi
si consumi
ogni gelo, ogni durezza;
ardi poi quest’alma allora
ch’altra adora,
qual si sia la mia bellezza.
Il fine