Antonio Caldara
Cajo Fabbrizio
Dramma per musica
Argomento
I Tarentini non potendo resistere a‘ Romani, co‘ quali erano in guerra, chiamarono in soccorso Pirro Re d’Epiro, e di Macedonia. Non mancò fra loro chi si opponesse a tal deliberazione, rappresentando, che ben tosto esso gli avrebbe costretti ad abbandonare la lor maniera di vivere tutta gioconda e festevole, in altra affatto rigida ed austera. Pirro all’invito de‘ Tarentini, de‘ Sanniti, e d’altri popoli della Magna Grecia, passò pertanto in Italia, e presa la lor protezione, dichiarò la guerra a‘ Romani. La prima cosa però, ch’egli fece, fu il proibire a‘ Tarentini le maschere, i teatri, e gli altri loro divertimenti, obbligandoli, lor malgrado, a passare dalla morbidezza, e dal lusso alla osservanza della disciplina militare più esatta. Nel primo fatto d’arme ottenne una segnalata vittoria contra i Romani, guidati da Levino lor Consolo, e posti principalmente in disordine dall’urto degli elefanti. In questa battaglia un Cavalier Romano da me chiamato Volusio, uccise Megacle, uno de‘ più cari amici di Pirro, credendo d’avere in lui ammazzato lo stesso Re, che in quel giorno avea cambiate le sue armi con quelle di Megacle, e postogli indosso il proprio manto reale. Dopo la battaglia, Pirro mandò Cinea, Tessalo di nazione, e uno de‘ più celebri oratori del suo tempo, in qualità di suo Ambasciatore a‘ Romani, per indurgli alla pace con offerta d’onorevoli condizioni, che da essi non furono in verun modo accettate. Tornato a Pirro Cinea, fu immediatamente seguito dagli Ambasciadori Romani, capo de‘ quali era Cajo Fabbrizio, Senator di gran merito, ma d’una estrema povertà. Il Re sperò di poterselo guadagnare, con l’offerta che gli fece d’una gran parte de‘ suoi tesori, che da lui generosamente furono rifiutati. La risposta di Fabbrizio intorno alla pace esibita da Pirro è qual si legge nel Dramma, dove pur si conforma all’istoria l’avviso datogli da lui, che guardar si dovesse dal veleno, che qualche suo confidente, della cui qualità non convengono gli scrittori, aveva deliberato di dargli, con la speranza di riportarne da‘ Romani una gran ricompensa. Questa varietà d’opinioni m’ha fatto parer verisimile, che tale insidia fossegli tesa da uno de‘ capi de‘ Tarentini, ch’io chiamo Turio. Il personaggio di Bircenna, figliuola di Bardullide, da me detto Glaucia Re dell’Illirio, e moglie di Pirro, ha il suo fondamento nell’istoria. Quello di Sestia, figliuola di Fabbrizio, e fatta prigioniera con altri Romani da Pirro, è introdotto per dar qualche motivo d’intreccio agli amori, senza i quali pare oggidì che un Dramma non sarebbe plausibile. Qui parimenti si finge, esser corsa voce, che Volusio, amante di Sestia, e destinato suo sposo, dopo avere ucciso Megacle nella battaglia, vi restasse anch’egli morto dalle ferite, che vi avea ricevute; e che poi risanatone, si portasse in Taranto, in abito di soldato Macedone, per uccidervi Pirro. Fingesi inoltre, che Bircenna gittata dalla tempesta non lungi dalle spiagge di Taranto, avendo quivi intesi gli amori di Pirro con Sestia, si fosse risoluta di assicurarsene con andarvi in persona, ma sotto nome di Glaucilla, e senza farsi conoscere a chi che sia. Il rimanente s’intende dal Dramma istesso, al quale han dato fondamento Plutarco nella vita di Pirro, Valerio Massimo, e Floro, ed altri antichi scrittori.
Interlocutori
Pirro, re d’Epiro, amante di Sestia
C. Fabrizio, ambasciadore de‘ Romani a Pirro
Sestia, sua figliuola, amante di Volusio, prigioniera di Pirro
Bircenna, figliuola di Glaucia Re dell’Illirio, sposa promessa di Pirro
Volusio, nobile Romano; amante di Sestia
Turio, capo della Repubblica de‘ Tarentini
Cinea, consigliere e confidente di Pirro
L’Allegrezza in Macchina
L’azione si rappresenta nella città di Taranto, e nel primo giorno, in cui vi si celebravano i Saturnali.
Atto primo
Sala dipinta di battaglie vinte, e di città conquistate da Pirro. La statua equestre di lui nel mezzo, tra due trofei militari; a pie‘ de‘ quali stanti giacendo varie figure di Greci, e di Romani prigionieri. Trono reale a parte, e due gran porte laterali nel fondo della sala.
Scena prima
Pirro con seguito di soldati, e Turio con seguito di Tarentini, in abito di gala, e di festa.
TURIO.
Pirro, gran Re, de‘ tuoi trofei qui volle
nelle tele, ne‘ marmi, e ne‘ metalli
eternar la memoria il nostro amore.
Neottolemo, Misimaco, Cassandro,
Demetrio, Atene, Roma, illustri nomi,
Pirro non bada né all’apparato della sala, né al dir di Turio, ma va riguardando i vestimenti di lui, e de‘ Tarentini; e poi sotto voce parla al capitano delle sue guardie, il quale dopo si parte.
sculti qui, e coloriti,
crescer vedi di pregio
ne‘ fasti tuoi. Tu invitto, immortal sei,
degno germe d’Achille, e degli Dei.
PIRRO.
Popolo Tarentino, e qual è questa
femminea pompa in viril gente? e dove,
dov’è l’austera Sparta, onde traete,
l’origine vetusta? E tu, che a questa
degenere città, Turio, se‘ capo,
tal vieni a Pirro? In vece
d’elmo alla fronte, e di lorica al petto,
qual si conviene a chi con Roma è in guerra,
fregi di lusso in nastri d’oro ostenti,
ed in serici ammanti?
Fine a gli ozi una volta; e polve ingombri,
dal vostro piè non trita,
i portici, i teatri. In disciplina
militar s’agguerrisca
la gioventù. Sia coraggioso il braccio,
che vi difenda da minacce, e torti;
e Pirro che è con voi, vi faccia forti.
Vien recata a Pirro una tavoletta da scrivere dal suo capitano, il quale inginocchiatosi, gliela sostenta sopra lo scudo, Pirro traggesi di sacoccia lo stile da scrivere, e sopra la tavoletta con esso nota, nulla badando a quello, che gli vien detto da Turio.
TURIO.
(Schiavi siam noi. Misera patria!) È questa
per noi de‘ Saturnali il lieto giorno?
Vuoi tu l’uso abolirne? Il rito? Ah, Sire,
mal ne rampogni? Allor ch’uopo lo chiese,
adoprar l’aste ne vedesti, e al fianco
rimetter sanguinosi
dalle stragi Latine i nostri acciari.
Un dì sì giocondo,
disciolti dal pondo
di cure moleste,
ne chiama al gioir.
Poi quando ne deste
dal breve riposo
il suon bellicoso,
vedrai, se avrem core,
se braccio a ferir.
Turio si parte: ma Pirro finito di scrivere, prende la tavoletta, e ordina al suo capitano, che lo richiami.
PIRRO.
(Quanto profonde il lusso, e quanto salde
tien sue radici!) Turio.
TURIO.
Signor.
PIRRO.
De‘ Saturnali
oggi si soffra la licenza;
queste qui impresse leggi
altra a voi norma in avvenir daranno.
TURIO.
Ubbidirem. (Tiranno.)
Pirro porge a Turio la tavoletta, il quale da lui la prende, piegando a terra un ginocchio, e poi si ritira.
Scena seconda
Pirro, Cinea, con seguito di Epiroti, e Turio in disparte.
PIRRO.
Qui dal Tebro Cinea?
CINEA.
Signore, io non credea,
avvezzo ad ammirar Pirro, e i suoi gesti,
cosa altrove incontrar, di cui stupirmi.
PIRRO.
Qual Roma a te sembrò? Quale il Senato?
CINEA.
Quella un tempio di Dei: questo un consesso
di Re.
TURIO.
(Qui per la patria udir mi giovi.)
PIRRO.
Ma di Pirro i trofei sparsi vi avranno
e scompiglio, e terror.
CINEA.
Dalle sconfitte
sorgon più alteri. Io temo,
che un’Idra di più capi
Pirro tolga a domar.
PIRRO.
Ferro non basta?
Vi saran fiamme. Un’altra
Troja farò di Roma. Anch’io son Pirro.
Ma, Roma accetta i patti? o in sua ruina
la superba s’ostina?
CINEA.
L’udrai da‘ suoi Legati, a‘ quai presiede
Fabbrizio, uom Consolar.
PIRRO.
Di Sestia il Padre?
CINEA.
Di lei, ch’è spoglia tua.
PIRRO.
Dilla, o Cinea,
mia vincitrice, mia Regina, e Dea.
CINEA.
In Pirro amor?
PIRRO.
Comune
debolezza a gli Eroi. Ne‘ miei grandi avi
ferma il pensier. Vi troverai gli Achilli,
i Pirri, gli Alessandri.
Qual di lor non amò? Gli occhi di Sestia
sul cor di Pirro han vendicato il Tebro.
CINEA.
Sestia è Romana; e il fasto
roman più le sue toghe
apprezza, che clamidi reali.
PIRRO.
Arde d’ostri la mia, che le dan pregio
maggior. Necessità doma alterezza.
CINEA.
Dall’Illirio a te in breve
qui fia Bircenna.
PIRRO.
Nozze
da lontano segnate: io saprò sciorle.
CINEA.
Il venir di Fabbrizio.
PIRRO.
Mi giovi. Un picciol campo
so, ch’è la sua ricchezza.
CINEA.
In sull’aratro
sudar, segnando i solchi, io stesso il vidi.
PIRRO.
Cinea, l’armi di Pirro han vinta Roma:
e i tesori di Pirro
vinceranno Fabbrizio.
CINEA.
A tua lusinga,
vedi, che il tuo gran core
troppo facili palme a se non finga.
Tanto, o Re, no, non fidarti
di tua forza, e di tua sorte.
Può la sorte abbandonarti
e vi sono anche vicende
per chi è grande, e per chi è forte.
Sentesi il suono de‘ timpani, e delle trombe. Pirro ascende sul trono, stando in piedi dall’uno de‘ lati Cinea, e Turio dall’altro.
Scena terza
C. Fabbrizio con seguito di Romani, e i suddetti.
TURIO.
Vien l’orator nimico.
A Pirro.
PIRRO.
Entri, e m’assido
Va sul trono.
FABBRIZIO.
Roma, che a te salute, e se vuoi pace,
Re dell’Epiro, invia; si pregia, e onora
d’aver trovato in Pirro
un nimico che sia degno di lei.
Nel passato conflitto
vincesti; è ver; non debellasti: e tanto
sangue ti costa il tuo trionfo istesso,
che se a tal prezzo anche il secondo ottieni,
temer puoi, che al suo regno
non sia de‘ tuoi chi vincitor te segua.
Per Cinea, tuo Legato,
al Romano Senato
pace chiedesti. Odi, Ei risponde. Il piede
traggi pria fuor d’Italia,
che a te nulla appartien. De‘ Tarentini,
e de‘ Sanniti rei più non ti prenda
pensier. Rendi i prigioni
o per cambio, o per prezzo. E poi si tratti
pace, e amistade in vicendevol patto.
Ma sinché in terren nostro
si accamperan le tue falangi: s’anche
dieci mila Levini avessi vinti,
ti farem guerra; e affolleransi i forti
a dare il nome, e ad empier le coorti.
PIRRO.
Non crediate, o Romani,
che interesse mi tragga, odio mi spinga
a far guerra con voi, che degni siete
d’esser più che nimici, amici a Pirro.
Questi ho tolti in difesa
Popoli a voi non servi. Essi l’han chiesta:
io l’ho concessa; e vuol ragion, che all’uopo
non si manchi a gli oppressi.
In lor pro m’interposi.
Voi nol curaste: e mia, col vostro spregio,
la lor causa faceste:
e la migliore già approvar gli Dei.
Ma qual giustizia è mai, che mi si parli
di rendere i cattivi,
se ancor dell’armi ritentar la sorte
si dee? Restano l’ire;
e le armerò in mio danno,
di sì prodi guerrieri,
esacerbati da vergogna, e pena?
No, no. Vengasi a pace; e poi vi rendo
prigioni, spoglie, armi, vessilli, e quanto
esser può testimon di mia vittoria.
La ricchezza di Pirro è la sua gloria.
Scende Pirro dal trono.
CINEA.
(Magnanimo rispose.)
TURIO.
(Dal suo dir spirò fasto.)
FABBRIZIO.
Dunque …
PIRRO.
Or non più. Venga qui Sestia al padre.
Si partono due delle sue guardie.
Fabbrizio assai per Roma
si dibattè.
FABBRIZIO.
Già ne intendesti i sensi.
PIRRO.
Ma tu i miei non appieno. Or fra i doveri
di cittadino, abbiano luogo ancora
quelli del padre.
FABBRIZIO.
Non ricuso il dono;
e da Sestia udrò lieto i nuovi esempi
della virtù di Pirro.
TURIO.
(Oh! se sapesse!)
PIRRO.
A lei d’assidui pianti
corron le gote, e duol la preme acerbo.
FABBRIZIO.
Con sì debole cor sostien suoi casi?
PIRRO.
Altro che prigionia forse l’affligge.
FABBRIZIO.
(Intendo.)
Vien Sestia.
PIRRO.
Ella a te viene;
e non mai più tranquille
vidi sue belle luci, e più serene.
Fra le grazie di quel viso
veggo il riso:
ma v’è un’ombra ancor d’affanno.
Quel dolor, Sestia, perché?
Prigioniera, è ver, tu sei:
ma d’un Re,
non d’un Tiranno.
Si parte con Cinea e con Triuo.
Scena quarta
Fabbrizio e Sestia.
FABBRIZIO.
Figlia, sì della patria
non m’ingombra l’amor, che a te non abbia
dato più d’un pensiero, e dirò ancora
più d’un sospiro. Ma ne‘ sinistri eventi
altro è il sentirne la gravezza, ed altro
il soccomberne al peso.
SESTIA.
Ove tenda il tuo dir, mostrami, o padre.
FABBRIZIO.
Troppo tu ti abbandoni
in preda al tuo dolor. Da Pirro il seppi.
SESTIA.
Senza te, fuor di Roma
Vergine, in fresca etade,
sola, in poter di Re nimico. Ah! quando
fu più giusto dolor? Pirro i miei pianti
disse; ma tacque i rischi;
e le perdite mie, padre, tu sai.
FABBRIZIO.
Queste però men gravi
sarien, dillo, sincera,
se fra lor non contassi
Volusio.
SESTIA.
Oh Dio!
FABBRIZIO.
Volusio,
da me scelto in tuo sposo, e de‘ tuoi primi
soavi affetti illustre oggetto, è morto.
SESTIA.
Morto è Volusio, e desolata io vivo.
FABBRIZIO.
Non si piangono, Sestia, i cittadini,
che cadon per la patria.
I pianti che si danno,
a chi muor da roman, fan torto a Roma.
Egli a vista del nostro, e del nimico
campo uccise Megacle,
in cui, dell’arme e delle vesti adorno
reali, ebbe credenza
d’uccider Pirro.
SESTIA.
Pirro ancor vive, e il mio Volusio è morto.
FABBRIZIO.
Morte degna d’invidia
non di dolor. Men ti dispiaccia il danno;
più da loco a virtude.
Lunghi non saran forse i ceppi tuoi:
né mancheran dopo Volusio ancora
sposi per te, che sien per Roma eroi.
A lui, ch’ami tanto,
da lode e non pianto:
né salgano a quella
sua fulgida stella
i lai del tuo amor.
Ragion, pria che tempo,
da te scacci affanno,
ristoro a gran danno
non vien da dolor.
Scena quinta
Sestia poi Bircenna con Turio.
SESTIA.
(Dispietata virtù, che ne condanni,
dove è tristezza, a simular costanza;
fa il tuo poter. Piangerò sempre il caro
idolo mio perduto.)
TURIO.
In quel metallo è Pirro.
Mostrando a Bircenna la statua di Pirro.
BIRCENNA.
Guerriera idea.
Guardando Bircenna attentamente.
SESTIA.
Con Turio
qual fia colei?
BIRCENNA.
Sì, Turio;
piacemi il nobil volto:
il cor non già, perché lo so spergiuro.
TURIO.
Volgiti, e colà mira
Additandole Sestia.
quella, ond’egli sospira.
SESTIA.
(Di me si parla.)
BIRCENNA.
Sestia?
A Turio.
TURIO.
Appunto quella
A Bircenna, che si ferma a guardare Sestia, e poi a Turio si volge.
BIRCENNA.
Se non l’amasse il Re, direi, che è bella.
SESTIA.
(S’avanzano a turbar la mesta pace,
in cui solinga col mio duol ragiono.)
BIRCENNA.
Glaucilla, io tal m’appello, alla felice
Sestia del suo dover reca gli omaggj.
SESTIA.
Se felice, o Glaucilla, e se superba
mi credi, in error sei. Me in stato abbietto,
circondano miserie.
BIRCENNA.
Gran beltà, e gran fortuna
s’accoppiano sovente.
SESTIA.
Né di quella io mi pregio;
né di questa ho vaghezza.
Ove tende il tuo dir?
A Turio.
TURIO.
Quella che intorno
fama di te risuona, a lei pur giunse.
SESTIA.
Fama è avvezza a mentir.
BIRCENNA.
Come ben finge!
A Turio.
Non dirai già così, quando i vassalli
A Sestia.
popoli avrai d’intorno.
SESTIA.
Son romana. Il sai tu?
BIRCENNA.
Gloria di Roma
sarà, che a te, sua cittadina e figlia,
di corona real splenda la chioma.
SESTIA.
Mal parli, e peggio pensi.
BIRCENNA.
Eh! si sa, che fra poco andrai Regina
al talamo di Pirro.
SESTIA.
Di Pirro?
BIRCENNA.
E le accortezze
delle tue ritrosie si sanno ancora;
l’arte di guadagnar l’alte fortune
sta in mostrar di sprezzarle.
L’intendo anch’io. Così sedotto è Pirro.
E Sestia occuperà ciò che è dovuto
a Bircenna, cui servo: a lei, che è figlia
dell’Illirio monarca.
TURIO.
(Alterezza gentil.)
SESTIA.
Se la baldanza
di parlarmi così, ti vien, Glaucilla,
dal presente mio stato,
d’alma vil ti palesi, e ancor maligna
in chi ha nobili sensi,
Pietà ‚l misero desta;
e insultar la miseria è un meritarla.
Se punto ha di virtù la tua Bircenna,
condannerà i tuoi sensi. Io non l’offesi.
Né mi cal del suo Pirro,
né del suo trono. Ella se l’abbia, e il goda.
Non mirano sì basso
i degni affetti miei.
Schiava qual sono, io non invidio a lei.
Altro senso, ed altro amor
mi sta fitto in mezzo al cor
al Re amante, ed al suo trono
né pur dono un sol pensier.
L’abbia suo, chi ‚l puote amar.
Figlia a Roma, ho egual valor,
s’ei lusinga, a nol curar:
s’ei minaccia, a nol temer.
Scena sesta
Bircenna, e Turio.
BIRCENNA.
Udisti, con qual fasto
risponda, e tratti i Re?
TURIO.
Quell’alterezza
torna in pro di Bircenna.
Non riamato è Pirro. Ecco per lei
nell’affetto una speme:
nell’ingiuria un piacer.
BIRCENNA.
Tutte ella dunque
contra Pirro infedel l’ire rivolga.
TURIO.
E le vendette ancor. Ma la gran donna
avrà un vil compagno.
BIRCENNA.
Che? Quando in armi è Pirro
contra Roma per voi, tal gli si pensa
render mercede?
TURIO.
Ah! tu non sai, qual duro
giogo per lui ne prema
meno Roma or temiam. Ma quando ancora
altra in Turio ragion d’odio non fosse,
dal tuo bel labbro esca un comando; e a norma
del tuo cor reggo il mio.
BIRCENNA.
Tanto già m’ami?
TURIO.
Dal tuo sguardo primier vinto e conquiso.
BIRCENNA.
Un facil amator non è costante.
TURIO.
Il vero amor nasce in un punto; e il breve
tempo, che s’interponga
tra il mirar vago oggetto, e il non amarlo,
è un torto alla beltà. Chi tosto l’ama,
meglio il poter ne riconosce, e il merto.
BIRCENNA.
Orsù: ti credo amante, e lo gradisco:
ma salda fé n’esigo, e pronta aita.
TURIO.
A costo anche di vita.
BIRCENNA.
Nulla tentar s’io nol comandi. A Pirro
moverò per Bircenna i primi assalti?
TURIO.
E se al dover non cede?
BIRCENNA.
Di Turio allor cimenterò la fede.
Credo; e t’accetto amante:
e amor ti renderò
ma pria da te vorrò
prontezza e fedeltà.
Più d’uno a bel sembiante
tutto promette amando;
ma al primo, che il cimenta
difficile comando,
s’arretra, si sgomenta;
e meritar non sa.
Stanza del tesoro di Pirro, con tre porte: l’una laterale: e due a‘ fianchi della facciata, le quali guidano, l’una a gli appartamenti di Sestia, e l’altra a quelli di Pirro.
Scena settima
VOLUSIO in abito di soldato Macedone armato di scudo.
Io vivo ancora, o Dei Quiriti; e vivo,
vostra mercé, perché corregga un fallo
del braccio, e non del core.
Generoso fu il colpo:
ma la vittima errai.
Raggiungerolla. Oh! fra tue guardie io possa
qui sorprenderti ancor. Tremane, o Pirro,
e per Sestia, e per Roma. In tua ruina
due furie ho al fianco, e assai fora una sola,
queste armi e queste spoglie
fan parermi Macedone: ma il core
e sente, e sa d’esser romano. Sestia,
sgombra le amare angoscie.
In tua aita, in mia gloria, a miglior fato
gl’immortali del Tebro
custodi Dei, Volusio han riserbato.
Anima, del mio core,
frena le care lagrime,
né sospirar per me.
Pien di coraggio e amore
vivo, idol mio, consolati,
vivo alla patria e a te.
Vien Pirro, e seco è il padre
di Sestia. O inciampo! È forza,
ch’io l’ire affreni, e non veduta attenda.
Entra per una porta.
Scena ottava
Pirro, e Fabbrizio, seguiti da alquante guardie, due delle quali recano poi due sedie.
PIRRO.
A sostener la guerra,
vedi, qui da Pirro accolti ampi tesori.
FABBRIZIO.
I tesori de‘ Re sono gli amici.
PIRRO.
Mancar possono amici ov’è ricchezza?
FABBRIZIO.
No, se al merito in seno ella si spande:
che gl’indegni arricchir non è da grande.
PIRRO.
Partite
Le guardie si ritirano.
e qui sediamci
l’armi che ho mosse dall’onor costretto,
non mi levan dal cor, che i tuoi non brami
cittadini in amici, e te più ch’altri,
per senno, e per valor famoso e chiaro.
Sdegnomi con fortuna,
tanto a te de suoi beni
ingiustamente avara. Io de‘ suoi torti
soffrir non vo‘, che più t’aggravi il peso.
FABBRIZIO.
Se pensi …
PIRRO.
Attendi. In mia real grandezza
di nulla più mi pregio,
che del farne buon uso.
Per lo più l’indigenza
preme i migliori; e chi ha il poter di trarli
di miseria, e nol fa, mal degli Dei,
le veci adempie. Or dove
collocar potrei meglio
i lor doni, che in te? Tuoi sien questi ori,
tue queste gemme. Io non esigo, offrendo,
cosa indegna in mercede.
Contro di Pirro a Roma
servi, e al dovere. Non compro la tua fede.
FABBRIZIO.
Gran Re: ch’io in lari angusti
regga la mia famiglia, e la nutrichi
di parchi cibi in orticel raccolti,
de‘ miei sudori asperso,
è ver. Non però senso
di povertà mi turbò mai, né questa
mi fu inciampo al salir que‘ gradi eccelsi
che i più degni han fra noi …
PIRRO.
Sì: ma qual lustro …
FABBRIZIO.
Attendi.
Tutto il ricco apparato,
che al decoro convien de‘ magistrati,
e de‘ pubblici uffizi, alle famiglie
non son di aggravio. Eburnee selle, e fasci
e servi, e saghi, e toghe, e quanto è d’uopo,
Roma a noi somministra. Ella n’è madre
comun. Nostro è il suo erario. In lei siam ricchi.
Qual dunque a me da‘ tuoi tesori, e doni
comodo e pro? quando soverchi, e vani
a me son nel privato,
e nel pubblico stato?
Accettandogli, o Re, que‘ perderei,
che son veri tesori, e beni miei.
PIRRO.
Magnanimo Fabbrizio, io tal ravviso
valor, nel tuo rifiuto,
che per esserti amico,
già m’obblio d’esser Re. Del cor di Pirro
giustifica gli affetti
la beltà della figlia,
e la virtù del padre.
Chiamami Sestia. Io l’amo.
FABBRIZIO.
Che! Tu di Sestia amante?
Si levano.
PIRRO.
Sì, per farla regnante.
Sia in tua man la pace
e di Pirro e di Roma:
né ravvisar si sappia in tal destino,
se miglior fosti padre, o cittadino.
Dona la pace a Roma:
rendi il riposo a un Re:
tanta non contrastar
sorte alla figlia.
Certa non ascoltar
ruvida austerità,
che par virtù, e non è,
se in altrui danno e tuo, mal ti consiglia.
Scena nona
Fabbrizio, e poi Sestia.
FABBRIZIO.
(Pirro amante di Sestia?
E Sestia il sa? Sestia mi parla, e tace?
Che ne deggio pensar?) Figlia.
SESTIA.
Buon padre.
FABBRIZIO.
Ti sovvien benché schiava,
che libera nascesti?
SESTIA.
Gl’insulti di fortuna
non han sovra il mio cor dominio, e possa.
FABBRIZIO.
E che fuori di Roma
non v’è bene per te, non v’è grandezza?
SESTIA.
Tutto anzi oggetto di disprezzo, e d’ira.
FABBRIZIO.
E Pirro ancor?
SESTIA.
Più che d’altri.
FABBRIZIO.
Re grande, invitto …
SESTIA.
Per valor feroce,
per fortuna superbo;
nimico a Roma, e che con guerra ingiusta
del suo poter s’abusa.
FABBRIZIO.
Anche in danno di Sestia?
SESTIA.
Non mi posso doler d’atto scortese.
FABBRIZIO.
Cortesie di nimico insidie sono
sovente egli a te venne.
SESTIA.
Onor non chiesto: io non potea vietarlo.
FABBRIZIO.
Che ti disser suoi sguardi in te si attenti?
SESTIA.
Co‘ suoi di rado s’incontraro i miei.
FABBRIZIO.
Che, Sestia, i suoi sospiri?
SESTIA.
Pietà gl’interpretai data a‘ miei mali.
FABBRIZIO.
Né mai d’amor ti favellò?
SESTIA.
Taciuto
non t’avrei l’ardir suo: non il mio rischio.
FABBRIZIO.
Rischio ben lo chiamasti, e l’hai vicino.
SESTIA.
Come, o Signor?
FABBRIZIO.
Pirro è tuo amante e t’offre
la corona d’Epiro.
SESTIA.
Ahimè! e di tanta
sciagura mia nunzio si elegge un padre?
FABBRIZIO.
Vuoi miglior testimon di tua virtude?
SESTIA.
Deh! spaventa il suo amor col mio rifiuto.
FABBRIZIO.
Mal s’irrita chi può quello che chiede.
SESTIA.
Dopo i miei ceppi, e dopo
Volusio estinto, un peggior mal v’è ancora
per me?
FABBRIZIO.
No, figlia, se avrai cor.
SESTIA.
Mancarmi
se il cor potesse, non sarei tua figlia.
FABBRIZIO.
A che m’astringi, dispietato onore!
Dà mano ad uno stilo senza snudarlo.
SESTIA.
Rinnova pur, rinnova i prischi esempi.
Forte sia la tua man. Mi sarai padre
più nel tormi la vita,
che non fosti nel darla.
FABBRIZIO.
Figlia, a sì duro passo
non siamo; e quando ancora
avessimo a temere un Appio in Pirro;
sovra te, che di Pirro
prigioniera ora sei,
qui ragion non avrei.
SESTIA.
Ah! che senza il tuo braccio …
FABBRIZIO.
Il tuo ti resta.
Prendi. Un ferro all’onor basta in difesa.
Lo dà a Sestia.
SESTIA.
Intendo …
FABBRIZIO.
E se mai Pirro
osi con atto indegno …
SESTIA.
Lo svenerò.
FABBRIZIO.
No. Spiacerebbe a Roma
liberarsi così d’un tal nimico.
Colpo d’onor t’addito, non di furor.
SESTIA.
Qual dunque
riparo avrò da‘ suoi mal nati amori?
FABBRIZIO.
Sestia, quello è mio acciar. Vibralo, e mori.
Scena decima
Sestia e poi Volusio.
SESTIA.
Vibralo, e mori! E quando
uscì miglior comando,
padre, da te? Liberatore acciaro,
ti bacio, e mio già sei;
né di scorno ti fia passar dal pugno
del maggior de‘ Romani, a quel di donna,
la più infelice sì, non la più vile.
E tu, amabil Volusio, ombra adorata,
raggirati a me intorno;
e ben tosto vedrai, con qual valore
venga teco ad unirmi,
mercé a questo, che stringo,
ferro letal, nel regno opaco e cieco.
VOLUSIO.
Ferro non giova, a chi Volusio ha seco.
Volusio esce improvvisamente, e tolto di mano a Sestia lo stilo, frettoloso si parte.
Scena decimaprima
SESTIA.
O Dei! che udii! che vidi!
Fu Volusio? Fu un’ombra? Il suon fu certo
qual di sua voce: e il raggio
quel fu degl’occhi. Io l’ho nel cor. Ma l’armi,
lo scudo, le divise
son di nimico. Ah! ch’egli è morto; e un’ombra
mi disarmò … Ma s’ei vivesse … e s’anco
mel rendesser gli Dei,
mossi alfine a pietà de‘ pianti miei?
Mi diffido, mi lusingo;
sento il male; il ben mi fingo:
egro son, cui d’esser sano
sembra allor, che più delira.
So ch’è inganno, e credo al senso.
L’impossibile amo, e penso.
E la credula speranza
sta col ben, cui più sospira.
Il Fine dell’Atto primo
Atto secondo
Piazza di Taranto, dinanzi al palazzo publico, tutta ornata d’arazzi, e d’altri ricchi addobbamenti, con festoni di fiori, e con altri vaghi ornamenti. Logge d’intorno piene di popolo, con apparato, e prospetto, che rappresenta la Reggia dell’Allegrezza, corteggiata da‘ suoi seguaci bizzarramente mascherati, i quali di poi intrecciano il ballo.
ALLEGREZZA.
A noi lieta, e ridente
torna la bella età.
CORO.
A noi ecc.
ALLEGREZZA.
Godiamo, amica gente;
che troppo ratto ancora
da noi s’involerà.
CORO.
Godiamo, ecc.
ALLEGREZZA.
A noi, ecc.
CORO.
A noi, ecc.
Il canto è accompagnato dal ballo.
ALLEGREZZA.
Torna la bella età. Tornan del prisco
benefico Saturno
gli aurei felici tempi, in cui non era
né servaggio, né impero
di giudice severo.
Tutto era pace, libertà, diletto.
Rancor non si sapea, guerra, o sospetto.
Segue dinuovo il ballo, con accompagnamento di canto.
MEZZO IL CORO.
Che età gradita!
Che dolce vita,
il poter vivere
sol per goder!
TUTTO.
Che, ecc.
L’altro mezzo
e delle infeste
cure moleste,
alcun non prendersi
tedio, e pensier!
TUTTO.
E delle, ecc.
TUTTO.
Né allor rancore
turbava amore;
né beltà instabile
facea temer.
L’ALTRO MEZZO.
Ma tra i diletti
di caldi affetti,
sospiri udivansi
sol di piacer.
TUTTO.
Che età, ecc.
TUTTO IL CORO.
Un solo de‘ bei giorni.
almeno a noi ritorni:
e fuor d’amare ambasce
sappiamone gioir,
sorga e tramonti il sole,
fra mense e fra carole
oggi ne trovi, e lasce:
né ci contristi o morda
l’incommodo avvenir.
Finito il ballo, ed il canto, tutti partono, e rimane libera la scena, il cui prospetto si chiude.
Scena prima
Turio e Bircenna.
TURIO.
Venne a noi dalla Grecia
tal rito, in cui si onora
il canuto Saturno.
BIRCENNA.
Costumanze festive.
TURIO.
E pur con legge
ingiustissima Pirro
le condanna, e le annulla. Ah! sostenerle
d’onor sia impegno, e di pietà: che in esse
v’è la causa de‘ Numi,
più di Roma possenti e più di Pirro.
BIRCENNA.
Turio, l’ire sospendi,
sinché appien si decida
di Bircenna il destin. So, ch’ella alfine
trono, e talamo avrà. Regina, e sposa
prenderà le tue parti. Il Re qui in breve
verrà. Tu mel dicesti.
TURIO.
E che far pensi?
BIRCENNA.
Rammentargli Bircenna, e la sua fede.
TURIO.
Con l’amante di Sestia un vano sforzo.
BIRCENNA.
Ciò ch’io possa, non sai. Lasciami.
TURIO.
E poi?
BIRCENNA.
A prender norma, e legge
vengano allor da‘ miei gli affetti tuoi.
TURIO.
Sì, mia diletta,
verrò qual brami:
vorrai vendetta?
Per vendicarti.
Vorrai affetti?
Per adorarti.
Se il cor, se l’opra
gradisci ed ami,
che bel servirti!
Che dolce amarti!
Scena seconda
Bircenna, e poi Pirro, Fabbrizio, e Cinea.
BIRCENNA.
Io Bircenna, io di Glaucia
la figlia, io la giurata
sposa di Pirro, avrò disciolti i legni
dalle illiriche sponde,
per soffrir qui miei torti, e poi derisa? …
No, Pirro, o la tua fede
voglio, o il tuo sangue. Non mi cal di rischio,
perché fugga vergogna. Eccolo. Al regio
manto il ravviso, al portamento altero,
e più al volto guerriero.
Si ritira in disparte.
FABBRIZIO.
E le falangi, e gli elefanti, e tutto
vidi il tuo campo.
PIRRO.
E visto avrai, né forse
senza qualche tua pena,
se dopo il suo trionfo
sia più debole Pirro.
FABBRIZIO.
Qual fer senso a Fabbrizio i tuoi tesori,
tal l’armi tue. Compiasi
di tante genti il fato,
che hai qui tratte a perir.
Bircenna s’avanza.
BIRCENNA.
Gran Re.
PIRRO.
Cinea,
La guarda, poi subito si volge a Cinea.
costei ravvisi?
CINEA.
Ella è straniera. Ai panni
sembra illirica, e forse …
PIRRO.
Si arretri e attenda.
A Cinea.
BIRCENNA.
Il cenno intesi.
A Pirro.
(Appena mi degnò d’uno sguardo.)
Si ritira.
PIRRO.
Come, e quando finir tra Pirro, e Roma
A Fabbrizio.
possa la dubbia guerra,
lo san gli Dei.
FABBRIZIO.
Gli onesti patti adempj,
ed io gli ulivi appresterò di pace.
BIRCENNA.
(Pirro si obblia. Soffre Bircenna, e tace.)
PIRRO.
Risparmiar tante stragi,
sta in tuo poter.
FABBRIZIO.
Roma il poter mi diede
di espor, non di cambiar l’alte sue leggi.
PIRRO.
Anco a lei piacerà, che taccian l’armi,
che Pirro le sia amico, e ch’io far degni
d’una sua cittadina,
una sposa Regina.
FABBRIZIO.
Disio t’inganna. Un’immutabil legge
vieta al popol Quirino nozze straniere.
A chi Roma ha per patria,
fuor di lei tutto è vil.
PIRRO.
Ma s’io …
Bircenna dinuovo s’avanza.
BIRCENNA.
Già attese
A Pirro.
oltre il dover, chi di Bircenna in nome
a te vien …
PIRRO.
Che baldanza!
A Bircenna con ira.
CINEA.
Non m’ingannai.
Piano a Pirro.
PIRRO.
Qui grave affar di regno
A Bircenna.
m’occupa. Agio avrai tosto
d’espormi i sensi tuoi.
BIRCENNA.
Come a te piace.
Si ritira come sopra.
(Per poco ancor soffre Bircenna e tace.)
PIRRO.
All’amor mio, di Roma
A Fabbrizio.
non cal, né di sue leggi. Il tuo mi basta
consenso, e quel di Sestia.
FABBRIZIO.
A chi gli è servo,
così parli chi è Re.
PIRRO.
Né a suo talento
Fiero.
può dispor di sua preda un vincitor?
FABBRIZIO.
Un tiranno il potria. Pirro ha virtute.
PIRRO.
E amore ancor, che più di quella è forte,
Bircenna pur s’avanza.
Sestia, ch’è spoglia mia, siami consorte.
BIRCENNA.
Sestia consorte? il grande affar di regno,
che t’occupa è cotesto?
PIRRO.
Olà …
BIRCENNA.
No, Pirro.
Tu obblii la fede. Io la ragion sostengo
per Glaucia, e per Bircenna.
Sovvengati. Le nozze
segnasti, e le hai giurate. Ella tua sposa
sciolse dal patrio lido. Atra Procella
in queste la gittò spiagge, ove appena
prender terra poté. Pochi fur salvi
de‘ suoi. Quasi il naufragio invidia a tanti
miseri che perir; sì le da pena
saper che infedel sei. Pirro, che alfine
tu le renda ragion, sospira, e chiede.
Salvasi dall’oltraggio
d’un rifiuto il suo core. Quell’alma fiera,
anche in mezzo al tuo campo, a‘ lauri tuoi,
sapria farti tremar. Furie di donna
esser ponno funeste anco a gli eroi.
Pirro sei: ma un altro Pirro
re qual tu, fu invitto e forte;
ma spergiuro; e in lui di morte
si punì l’infedeltà.
Frigia schiava a lui trar piacque,
qual tu amante, al patrio lido;
ma in suo mal divenne infido
a una regia Achea beltà.
Scena terza
Pirro, Fabbrizio, e Cinea.
PIRRO.
Inopportuno incontro!
Da sé.
CINEA.
Che ne dirà l’austero Fabbrizio?
Da sé.
FABBRIZIO.
O Dei! nel Grande,
nel magnanimo Pirro,
sensi di lui sì indegni?
Per cieco e vano amor perder gli amici?
Tradir se stesso? Ah! quanto di tua gloria
duolmi, e di tua virtù! D’esserne io stato
testimonio ne ho rossor. Che dirò a Roma
di te? Che al mio Senato?
Elefanti, e falangi in nostro danno
vengan pure, te Duce. A gran trionfi
forza non sempre basta.
Gli precorre il buon nome,
e ne appiana le vie. Tu vincer forte,
dopo altrui, te medesmo
non sai. Tu in abbandono
ti lasci a‘ fiacchi affetti.
Seguili pur. Corri a vergogna, e danno.
Tradisci la tua gloria;
deturpa i tuoi trofei;
quel Pirro, ch’io credea, no, più non sei.
Scena quarta
Pirro e Cinea.
PIRRO.
Eh! seguane che vuol: sien di Bircenna
i rimproveri giusti:
sien del Roman saggi i consigli: ho troppo
fisso nel core il fatal dardo. Astretto
da insuperabil forza
sono ad amar.
CINEA.
Non s’ama,
quando amar non si vuole.
PIRRO.
Cinea, ben tosto
rieda quella al suo Illirio;
ed intenda esser vano
recar querele, e minacciar vendette.
CINEA.
Io più mi guarderei da donna irata.
PIRRO.
Parli a Sestia il mio core, e il suo si ascolti.
CINEA.
Ti cimenti a ripulse.
PIRRO.
Femmina per costume ama la grandezza;
e man non si disprezza,
che potendo oltraggiar, porge un diadema
Sestia è schiava; io son Re. M’ami, o mi tema.
Non dirmi ingiusto, e rio.
Ingiusto è l’idol mio:
crudele è la beltà, che tal mi rende.
Con placide acque, e chiare,
quel fiume andrebbe al mare;
ma v’entra di repente
un torbido torrente,
che il corso ne sconvoglie, e il bel ne effonde.
Scena quinta
CINEA.
Numidico lione, ircana tigre
meglio a frenar torrei che i giovanili
caldi affetti d’un Re. Quanto diverso
Pirrò è da sé! Fuor di sentir la porta
sregolato desio di falso bene,
che costar gli potrebbe, anche ottenuto,
onte, rimorsi, pentimenti, e pene.
Giovani cori amanti,
tanti sospiri e tanti
perché un amor spargete?
Stolti! un gran ben credete
quello, che ben non è.
S’ei fosse ben verace,
gioia darebbe e pace;
e tante angosce, e cure
non porteria con sé.
Doppio viale delizioso, con doppia spalliera di vasi d’aranzi e di fiori, che va a terminare in giardino.
Scena sesta
SESTIA.
Volgo il piè: giro il guardo:
e non trovo, e non veggio
chi fiammeggiò qual lampo
a questi occhi, e sparì. Caro Volusio,
o tu de‘ voti miei,
dopo Roma il più illustre,
volgo il piè: giro il guardo: Ah! dove sei?
Del suo amoroso fedel custode,
va ancora in traccia smarrita agnella:
guarda: geme: e alcun non ode,
che risponde al suo dolore.
Sale or rupe; or corre in selva.
Ma qual pro? su quel meschino,
forse atroce ingorda belva
satollò fame e furore.
Scena settima
Fabbrizio, Sestia, e poi Turio.
FABBRIZIO.
Figlia …
SESTIA.
Signor, quel tuo sì fosco aspetto
casi infausti mi annunzia.
FABBRIZIO.
Se non infausti, perigliosi. In breve
tutto saprai.
SESTIA.
Penoso indugio.
FABBRIZIO.
Il soffri,
sinché Turio qui ascolti. Egli a me viene.
SESTIA.
Non lunge intanto a questi muti orrori
de‘ miei ragionerò miseri amori.
Ritirasi, e va a passeggiar pel giardino.
TURIO.
Al legato Romano Turio i suoi reca
ossequiosi omaggi.
FABBRIZIO.
Che mi chiedi in tuo pro?
TURIO.
Silentio, e fede.
FABBRIZIO.
Parla e nulla temer.
TURIO.
Quanto amor possa
di libertà, Roma al tuo cor lo dica.
Tema di servil giogo ardir ne diede
a pugnar contro voi. Vinti, non domi,
cercammo in Pirro un difensor. Ma Pirro
fatto è in nostro tiranno.
Patti obblia: cambia leggi: annulla riti:
e infin ne toglie sacrifizj e Numi.
Come puoi sofferirlo?
Si corregga l’error. Roma ne accolga
sotto l’aquile sue. Per me ten porge
preghi un popol intero.
Sotto il dolce suo impero
respirerem sicura
e onesta libertà. Merto a ottenerla
ne faccio il tor di vita il vostro, in Pirro,
formidabil nimico.
Letal velen gli darà morte. È pronta
tazza, e ministro. Omai
vendichi Pirro esangue
l’onte comuni. Assai
noi di pianto versammo, e voi di sangue.
FABBRIZIO.
Turio, non è in un solo
l’arbitrio del Senato. Egli è la mente
de‘ consigli, e dell’opre.
Fa che un foglio assicuri
la fede, i voti, e le promesse. Il nome
vi soscrivano teco
i Duumviri, i Capi
delle Decurie, e gli altri Magistrati.
In mia man poi lo fida.
TURIO.
Tanto farem: né tua virtù concede
dubitar di tua fede.
Scena ottava
Fabbrizio, e poi Sestia.
FABBRIZIO.
Quai malefici influssi
volgonsi in questo cielo! Qui fede in bando
qui ragione in dispregio;
qui giustizia in obblio. Scorgo anche
inciampi
per l’istessa innocenza. Or m’odi o figlia?
SESTIA.
Che fia?
FABBRIZIO.
Chi mai pensato l’avrebbe?
SESTIA.
E che?
FABBRIZIO.
Sotto nimiche spoglie
Volusio …
SESTIA.
(L’idol mio.)
FABBRIZIO.
Sta nel campo di Pirro.
SESTIA.
Anche a‘ miei lumi
poc’anzi egli s’offerse:
ma ne sparì qual ombra.
FABBRIZIO.
Io il vidi. Io il ravvisai
tra‘ reali custodi.
SESTIA.
Qual desio? Qual pensier?
FABBRIZIO.
Siasi qual voglia,
tutto è indegno di lui.
SESTIA.
Gli favellasti?
FABBRIZIO.
No: ma con torvo sguardo
gli minaccia l’ire di Roma e mie.
SESTIA.
Forse volge gran cose?
FABBRIZIO.
Inique o perigliose.
SESTIA.
La sua virtù.
FABBRIZIO.
Qui veggo
non virtù, ma furore.
SESTIA.
L’amor …
FABBRIZIO.
Non più. Torni Volusio al Tebro,
da te n’esca il comando: e s’ei t’opponga
o timori d’amante,
o trofei di guerriero,
tu assicura il suo amor: ma che coltivi
altri allori alla chioma;
e gli dirai, che basta un Muzio a Roma.
Era meglio in dura sorte
sospirar per la sua morte,
che tremar per la sua gloria.
Senno regga il suo valore:
né gli faccia o sdegno, o amore
deturpar la sua memoria.
Scena nona
Sestia e poi Volusio.
SESTIA.
Teme il padre a ragion. Nel campo ostile
a che ascoso, e furtivo?
Vede Volusio.
VOLUSIO.
(Secondate i miei sforzi o Dei Quiriti.)
SESTIA.
(Non m’inganno. Egli è desso.)
VOLUSIO.
Qui Sestia. Oimè.
In atto di partirsene.
SESTIA.
Tanto Volusio temi
Lo ferma.
l’aspetto mio? Tu me sfuggir? Che debbo
creder di te? Deposto,
non men che l’armi hai ‚l cor Romano? Oh! fossi
qual ti piansi, anzi estinto.
VOLUSIO.
Più giustizia mi renda,
Sestia il tuo cor.
SESTIA.
Ti giudico, e condanno,
non da quel che già fosti,
ma da quel che ora sei.
VOLUSIO.
Pochi momenti
ti renderanno del tuo error più accorta.
SESTIA.
Trarmi d’affanno or puoi. Dimmi, che pensi?
VOLUSIO.
Per comun bene un memorabil colpo.
SESTIA.
Deh! se ancor m’ami, e vuoi ch’io il creda, a parte
chiamami di tua gloria. Anch’io Volusio,
le forti cose oprar posso, e soffrirle.
VOLUSIO.
Si compiaccia al tuo amor. V’ha chi n’ascolti?
Guarda intorno.
SESTIA.
Siam soli. Benché schiava,
me si lascia in custodia alla mia fede:
favor che deggio a Pirro.
VOLUSIO.
A Pirro? Ah! tu il nomasti. Su lui cadranno
l’ire vendicatrici;
né qui mi fuggirà, se a me non manco,
la vittima ch’errai.
SESTIA.
Dall’opra audace
qual vantaggio ne speri?
VOLUSIO.
Da un fier nimico, e da un tiranno amante
libera Sestia, e Roma.
SESTIA.
Perder tu vuoi più tosto
Roma, Sestia, te stesso.
Su via. Pirro s’uccida. E poi? Di pace
rifioriran gli ulivi?
Sciolti andranno i cattivi?
Io libera, tu salvo,
le belle rivedrem rive del Tebro?
No. L’ira più feroci
darà l’armi all’Epiro. Il roman sangue
bagnerà i nostri ceppi,
misto col mio. Ma no, Volusio, Il meno
che qui tema, è per me. Veggo il tuo rischio;
veggo quello del padre. Or va. Per cieca
cupidigia di gloria un colpo tenta
oltraggioso alla patria, a noi funesto.
Ma non sperar, che questo
tra gli Scevoli possa, e i Deci eroi
la memoria eternar de‘ fasti tuoi.
VOLUSIO.
Sestia, fra tuoi spaventi
Pirro ah! Tu non rammenti? Altra a lui credi
forse dover mercede?
SESTIA.
Che dir vorresti?
VOLUSIO.
Un Re, che t’offre amante …
SESTIA.
Oltre non dir. Ciò lo comprendo. Il fiero
ardir, che qui ti guida,
anzi da un cor geloso
parte, che generoso.
Arrossisci del torto
fatto alla tua virtù, fatto alla mia.
VOLUSIO.
Ma Pirro …
SESTIA.
Ei né lusinghe ha, né minacce,
onde s’abbia a seder nel cor di Sestia
il dover, e l’amor. Tu riedi al Tebro.
VOLUSIO.
E chi? Vorrai tormi l’onor? …
SESTIA.
Sì. Il voglio
VOLUSIO.
Ma lasciarti in balia …
SESTIA.
Forte più ch’altro è la costanza mia.
VOLUSIO.
Lascia, che almeno spettator ne resti.
SESTIA.
No. Tu il rischio di Sestia esser potresti.
VOLUSIO.
Dicesti: Voglio;
sospiro e parto.
Basta così.
Sola qui resti.
Ah! tu potresti
del rio comando
pentirti un dì.
Volusio, veduto Pirro, passa all’altro viale, poi torna di nuovo verso di Sestia.
Scena decima
Sestia, Pirro, e Volusio.
SESTIA.
(Partì a tempo. Ecco Pirro.)
PIRRO.
(Amor di Re parli una volta, e vinca.)
Da lontano.
VOLUSIO.
Soffri …
A Sestia.
SESTIA.
Oimè son perduta.
VOLUSIO.
Veder Pirro e lasciarti? Io nol potei.
SESTIA.
Nulla osar.
VOLUSIO.
Nulla ei tenti.
SESTIA.
O perigli! o tormenti!
Pirro, dando un’occhiata a Volusio, che in atto riverente ritirasi alquanti passi, si avanza verso di Sestia.
PIRRO.
Spiega, o Sestia, oltre l’uso
dolor ne‘ tuoi begli occhi atre divise.
Senza grave cagion non sei sì mesta:
e colui ne fu forse il nunzio infausto.
Mostrando Volusio.
SESTIA.
(Che gli dirò?) Non nego,
Signor, d’amara angoscia il cor è oppresso.
Volusio a cui, se avversi
fati non s’opponean, sarei già sposa,
nel passato conflitto
cadde da eroe. Ragion, faceagli, in dirlo
quell’uom guerrier, che nella pugna il vide.
VOLUSIO.
E le dicea, che in ver Magacle al pari
di feroce lion scagliarsi il vidi,
e con più colpi al suolo
stenderlo, in lui credendo
di più nobil trionfo ornar sua fama.
PIRRO.
Che Volusio sia estinto
Sestia più non ti dolga.
SESTIA.
Ah! l’ho presente
troppo nel core, e troppo, o Dio! negli occhi.
VOLUSIO.
E troppo è fresca la memoria acerba.
PIRRO.
L’amor mio risarcisce
con usura i tuoi danni.
SESTIA.
Soffrirli con virtù mi fa conforto.
VOLUSIO.
E rimedio che affligga, accresce i mali.
PIRRO.
Altra gloria è per te l’esser consorte,
di chi vanta in retaggio impero, e trono,
che di chi mendicando
va un precario comando.
VOLUSIO.
I beni han più il loro prezzo
dall’idea che n’abbiam, che da se stessi.
PIRRO.
Costui …
SESTIA.
Fa ch’egli taccia e a me si lasci
il risponder a Pirro.
Pirro volgesi con ira verso Volusio il quale mostra di rispettarne il comando, e torna a ritirarsi alquanti passi lontano. Escono intanto d’un viale Turio, e Bircenna, seguiti da un soldato armato d’arco e di dardo.
Scena decimaprima
Turio, e Bircenna in lontananza e i suddetti.
TURIO.
Eccoti i suoi uccisori.
A Bircenna in lontananza.
BIRCENNA.
Il cenno attenda.
A Turio, e qui Turio e il soldato passano all’opposto viale, ponendosi quivi in agguato. Bircenna si va avanzando verso Pirro.
PIRRO.
Or rispondi: ma, Sestia,
non mi por Roman fasto, e leggi austere.
SESTIA.
T’opporrò quella fede,
che a Bircenna giurasti.
PIRRO.
Eh pensier non ti prenda
d’un già sciolto imeneo. Vanti alta stirpe,
regal sangue; alma invitta; io non la curo.
ella torni al suo Illirio. Ella …
BIRCENNA.
Sì, Pirro,
ella vi tornerà.
PIRRO.
Che non partisti?
BIRCENNA.
Ma di quel che ti pensi
forse vi tornerà meno infelice.
Deh prendati, o Signor, di te pietade,
se non di lei. Glaucilla
ten prega, e qual ti parli
la vergine real, da me l’ascolta …
PIRRO.
Vane foran le accuse.
Risparmiarle già puoi. Nozze fra l’armi
stabilite, era lieve,
che discordia sciogliesse.
Non s’ostini Bircenna
in un’idea d’orgoglio,
più che d’amor. Per Pirro
abbia sprezzo, abbia obblio.
Cangi anch’ella il suo core, e imiti il mio.
VOLUSIO.
(Colà tendonsi insidie.
Che fia?)
Riguardando verso l’opposto viale.
BIRCENNA.
Più del dover
feci, o Pirro, per te. Rimanti pure
con la tua Sestia. A lei
corrono i voti tuoi, vanno i tuoi sguardi.
Nulla di me ti cal: nulla di quella,
per cui prego e minaccio. Addio. Al tuo fato
poiché il vuoi, t’abbandono.
Fra poco, o Re, meglio saprai qual sono.
No, che de‘ tuoi spergiuri,
A Pirro.
perfido, non godrai.
Né tu il diletto avrai,
A Sestia.
che un Re ti sia fedel.
Nell’ire mie pur sento
A Pirro.
qualche pietà per te
Affettuosa.
rendi a chi dei la fede.
Ma tu mi vuoi crudel.
Fiera.
PIRRO.
Che superbia di donna!
BIRCENNA.
Olà morte all’iniquo.
Bircenna nell’atto di partirsi, dà il cenno al soldato di vibrare il colpo. Questi ubbidisce. Volusio che vi sta attento, vi oppone a tempo lo scudo, e salva Pirro.
VOLUSIO.
Io lo difendo.
SESTIA.
Guardati.
PIRRO.
Quali insidie!
BIRCENNA.
(Avversi Numi!) Pirro,
Si avanza verso Pirro.
non sempre al fianco il difensore avrai.
Si parte.
VOLUSIO.
Pirro, a ucciderti venni, e ti salvai.
Si parte.
Scena decimaseconda
Pirro, e Sestia.
SESTIA.
(Il mio Volusio difensor di Pirro?
O magnanimo cor!)
PIRRO.
Quanti ad un tempo
tradimenti, e perigli!
Tanto vil donna? E tanto
plebeo soldato? Eh! no. Meglio apro gli occhi
in colei la superba
Bircenna io scorgo, e in questo? …
Pirro a ucciderti venni, e ti salvai?
Salvarmi a un tempo e minacciar? Far quello
un può de‘ miei Macedoni. Di questo
uno solo può de‘ tuoi Romani. Ah! Sestia,
Sestia, tu il sai. Tu ancora mi tradisci.
SESTIA.
Io?
PIRRO.
Nol negar. Già ti condanna il volto,
quegli era il tuo Volusio; e la mia morte
qui con lui consigliasti. O iniqua, o ingrata!
SESTIA.
Dimmi ingrata: hai ragion, s’è sconoscenza
il non poterti amar. Ma inqua, a torto
mi chiami. È ver. Quegli è Volusio. Il trasse
qui amor: ma ti difese; e ti diè vita.
PIRRO.
Per ritormela ei stesso. Egli l’onore
ne invidiò ad altro braccio;
al suo lo riserbava: a te il dovea.
Ma grazie al ciel rotta è la trama. Invano
tenterà di fuggirmi.
A te ricondurrollo. Avrò, spietata,
con che farti tremar. L’alma disponi;
e più non t’ostinar: che nol consente
l’amor di Pirro, e tuo destin presente.
Scena decimaterza
Sestia, e poi Volusio.
SESTIA.
Sestia, invan ti fai core
per parer forte. Chi salvar da Pirro
può l’idolo mio? Voi soli,
Dei di Roma, il potete.
VOLUSIO.
E tu con essi.
SESTIA.
Volusio, ah! che facesti!
VOLUSIO.
Ciò che virtù mi chiese.
SESTIA.
Ma te stesso perdesti.
VOLUSIO.
No, se tu ancor mi segui.
SESTIA.
E dove?
VOLUSIO.
Al Tebro.
SESTIA.
Ogni scampo n’è chiuso in terra ostile.
VOLUSIO.
Turio, che vuol di Roma
il favor meritar, n’apre la strada.
SESTIA.
E ben, vanne, e ti salva.
VOLUSIO.
Senza te?
SESTIA.
Me, non preme
quello, che te minaccia ultimo fato.
VOLUSIO.
Ben peggio a te sovrasta
da Pirro amante.
SESTIA.
Io morir posso.
VOLUSIO.
E posso
morir anch’io.
Scena decimaquarta
Turio e i suddetti.
TURIO.
Se in vani
contrasti anco indugiate,
vana è la pietà. Sestia, convienti
o fuggir con Volusio,
o vederlo perir. Se tu rimani
non ho il frutto dell’opra. Il cor di Pirro
a Bircenna si dee: tu lo ritieni,
la tua fuga gliel renda:
e Glaucilla, cui servo, a me sia grata.
VOLUSIO.
Sestia ancor tu ripugni? Addio, crudele.
Vado incontro a‘ custodi, e sfido morte.
SESTIA.
Senti. Che dirà il padre?
TURIO.
Ne approverà la fuga.
Questo sia mio pensier. La via che guida
fuor delle mura è quella. Ivi ne segui
tu a lento passo per non dar sospetto.
SESTIA.
Amor, vincesti. Il cor mi batte in petto.
Turio e Volusio si partono.
Zelo, vuol, ch’io serbi a Roma
un eroe nel caro amante.
Zelo il dissi; e il cor tremante
vuol ch’io taccia, e il dice amore.
Ma sia questo amore, o zelo,
purché viva il mio diletto,
in lui serve un casto affetto
alla patria, ed al mio core.
Il Fine dell’Atto secondo
Atto terzo
Corridore, che corrisponde a vari appartamenti.
Scena prima
Turio e Bircenna.
TURIO.
Dalla fuga di Sestia e del suo amante
tolta è a Pirro ogni speme
dell’ingiusto suo amore.
BIRCENNA.
Parmi d’udirne
i fremiti e le accuse.
TURIO.
Pirro n’è ignaro; e a tutti
fuorché al padre di Sestia,
che così volle, il tacqui.
BIRCENNA.
Ei che ne disse?
TURIO.
Parve turbarsi: mi lasciò: ma forse
n’era lieto in suo cor.
BIRCENNA.
Quanto ti deggio!
TURIO.
L’amor di sì bell’opra,
tutta di Turio sia l’alta mercede.
BIRCENNA.
Basta sì poco a lui? Non sì modesto
poc’anzi era il suo affetto.
TURIO.
I voli dell’amor frena il rispetto.
BIRCENNA.
Non mi creder sì ingrata.
Amor vuoi da Glaucilla. Amor ne avrai.
TURIO.
Eh, tanto ben per Turio
non è. Per meritarti,
fora appena bastante
l’offerta di più regni: ed il mio amore
a poterti offerire non ha che un core.
BIRCENNA.
Che dir vorrai?
TURIO.
Ciò che ne dicon tutti.
Gli audaci voti ornai correggo, e meglio
comincio ad onorar la mia Regina.
BIRCENNA.
Tal sono: è vero. Alla tua fede, o Turio,
il negarmi qual son sarebbe oltraggio.
TURIO.
Ma troppo intanto divampar la fiamma
fer le dolci speranze, or sì infelici.
BIRCENNA.
Sia conforto al tuo duol; che avrai costante
il favor di Bircenna, e di Glaucilla
l’imeneo …
TURIO.
Di Glaucilla?
BIRCENNA.
Sì: tra le ancelle mie la più diletta,
beltà le ride in volto; e s’ampia dote
chiedi, o se nobil cuna,
essa l’ha da retaggio, e da fortuna.
TURIO.
Sarà vezzosa e bella:
mille avrà pregi e mille
ma non sarà mai quella,
quella che tanto amai.
Voi chiome, e voi pupille,
d’amor facelle e rete,
sole ostentar potete
a imprigionarmi i lacci,
a incenerirmi i rai.
Scena seconda
Pirro, e Bircenna.
PIRRO.
Principessa, egli è tempo,
che s’intendano meglio i nostri cori.
Obblio le andate offese, e dell’illustre
figlia di Glaucia onor già rendo al grado.
BIRCENNA.
Perché non dir più tosto:
rendo al dover la fede? E poscia anch’io
onte e spergiuri obblio. Non vuol decoro,
non ragion, non amor, ch’io rifiutata
torni al regno, ed al padre.
PIRRO.
Nel tuo giusto dolor veggo il mio torto.
Ma che far posso? Fu sorpreso il core,
e Sestia ti prevenne.
BIRCENNA.
La viltà dell’oggetto
dovea farti arrossir.
PIRRO.
Se co‘ miei lumi
la potessi mirar, vil nol diresti.
BIRCENNA.
Qual mercé ne ottenesti? Ire, e disprezzi.
PIRRO.
Crescerà per contrasti il mio trionfo.
BIRCENNA.
Sestia è ognor tua nimica.
PIRRO.
Ed è mia schiava ancor?
BIRCENNA.
Tua schiava? Eh, Pirro,
l’armi tue vincitrici
s’affrettino a cercarla entro di Roma.
PIRRO.
Che dici?
BIRCENNA.
Ella col caro suo Volusio è fuggita.
PIRRO.
O Dei! l’ingrata? …
BIRCENNA.
Chi dato abbia a colei mano e consiglio
nol cercar, che in Bircenna.
Re d’Epiro, sin tanto
che spergiuro m’offendi,
dall’ire mie sicura
la tua vita, e il tuo amor non sarà mai.
Ma se ragion mi fai,
non potresti trovar Regina, e sposa
né di me più fedel, né più amorosa.
Cessa di più oltraggiarmi;
rendimi fede e amor:
e il tenero mio cor
tutto vedrai languir per te, mio sposo.
Ma se ricusi amarmi,
non sempre il mio furor
in vano ferirà:
io non avrò pietà, né tu riposo.
Scena terza
Pirro, e poi Cinea.
PIRRO.
E fuggirmi poté? Poté tradirmi
l’iniqua? … A che qui perdo
i rimproveri, e l’ire? Olà, custodi:
dietro l’indegna coppia …
CINEA.
Il tuo prevenni
regio voler. Per ogni parte intorno
scorrono legni, e soldati.
PIRRO.
Ah Cinea, tal perfidia
creduta avresti? I doni miei l’ingrata
in mio danno ha rivolti. Ella è fuggita.
CINEA.
La figlia accusi, e non condanni il padre?
PIRRO.
Come?
CINEA.
Anch’egli a gran passi
va sull’orme di lei.
PIRRO.
Fabbrizio ancora
fuggir? Perché? qui nol rendean sicuro
la ragion delle genti? il grado? e Pirro?
Or va: m’ostenta la virtù Romana.
Volusio ordisce inganni;
Sestia manca alla fede.
E Fabbrizio a se stesso, a Roma, a Pirro.
Scena quarta
Fabbrizio, Sestia, e i suddetti.
FABBRIZIO.
Né a te, né a Roma, né a se stesso ei mancò.
Eccoti in Sestia, o Pirro,
la mal fuggita figlia.
Torni la sconsigliata a quella sorte
che la fe‘ tua cattiva.
Tu di ferree ritorte il piè non le aggravasti;
e in sua custodia
ti bastò la sua fede.
Se ne abusò. Degna è di pena; e l’abbia.
Ceppi, carcere e quanto
di ragion sovra lei l’armi ti danno
non risparmiar. Lo soffrirà la figlia,
e cor faralle il padre.
Ma il confine sia questo
del tuo poter. Quel che di più volesse
esigerne la forza, è contra il giusto
contra il dover. Pur s’uopo il chiegga, il sappi;
Sestia, che ha Romano petto, e ch’è mia figlia,
fra morte e disonor non si consiglia.
PIRRO.
Generoso Fabbrizio, or ben m’avveggo …
FABBRIZIO.
Oprando con virtù, lodi non chieggo.
Quella è mia figlia; e il mio
A Pirro.
sangue rispetto in lei.
Tuo genitor son io,
A Sestia.
sai quel che devi a me.
Spegnere un pravo ardore
A Pirro.
sia la tua gloria, o Re.
Ma ciò ch’esiga onore,
A Sestia.
io non rammento a te.
Scena quinta
Cinea, Pirro, e Sestia.
CINEA.
In sì funesto amor che più ostinarti?
A Pirro.
PIRRO.
Non anco ei giunge a disperar. Deh parti.
A Cinea, che si parte.
SESTIA.
(Poiché lunge è il mio ben, nulla si tema.)
PIRRO.
Sestia, ad esser ritorni
mia prigioniera. Nol temevi, e lieta
col tuo Volusio t’affrettavi al Tebro,
in tuo cor numerando
tra gaudi tuoi, l’onte di Pirro, e l’ire;
ma t’ingannasti. Or qual discolpa, ingrata,
per quella fuga avrai, che t’hanno aperta
solo i miei benefizj?
SESTIA.
Re, lo dirò, Cotesti
tuoi benefizi mi servian appunto
di più cruccio e terror, che i ceppi e i mali
onde aggravar del mio servaggio il peso
potevi. Io ti vedea per desir vano
perderti ciecamente
e più che al proprio scampo,
provvidi alla tua gloria.
PIRRO.
E tanto la mia gloria
non t’era a cor. L’amante,
che al tuo fianco trovai; l’amore; il rischio
di lui t’hanno sedotta; e in fuggir seco,
a Volusio servisti, e non a Pirro.
SESTIA.
Più che non pensi a te servii. Già posso
or che Volusio è salvo, osare, e dirti
ciò che tratto dal cor mai non m’avrebbe
né minaccia, né pena.
La morte, a cui ti tolse
nella pugna il suo error, qui dal suo braccio
non avresti sfuggita. Io lo ritenni;
né potendo al tuo amor render amore
t’usai pietà, per non parerti ingrata.
Ciò che fece in tuo pro, Pirro, il vedesti:
ciò che ancor in tuo danno
ei potesse tentar, Sestia il sapea.
Egualmente io temea
per te, per lui. Gli consigliai la fuga.
Ma gran ben non gli parve uscir di rischio
senza me. Vinse amor; vinse pietade.
S’errai, caro è l’error. L’austero padre
rea mi rende a‘ tuoi ceppi:
ma Volusio ei mi salva, in cui ragione
non avean l’armi tue. Questo a me basta.
Non son nel peggior fato; e mi consola,
che costretta a soffrir, soffrirò sola.
PIRRO.
Sola ancora …
Scena sesta
Cinea, poi Volusio, disarmato in abito di Romano con guardie, e i sopraddetti.
CINEA.
Signor, quanto oggi devi
a‘ tuoi stessi nimici!
Volusio è tuo prigion.
PIRRO.
Volusio?
SESTIA.
Oh Dei!
CINEA.
Nelle regie tue stanze
da‘ custodi sorpreso.
PIRRO.
Sestia, gli Dei son giusti.
SESTIA.
Sfortunato amor mio! Che fei? Che dissi?
CINEA.
Vedil.
PIRRO.
Minaccia è il volto e inerme è il braccio.
SESTIA.
Per timor d’irritar m’arretro e taccio.
Si ritira in disparte.
PIRRO.
Misero qual sei tu?
VOLUSIO.
Romano, o Pirro.
PIRRO.
Qual ti appelli?
VOLUSIO.
Hai il mio nome
di che farti tremar, Megacle uccisi.
PIRRO.
Te altre volte in aspetto
di Macedone io vidi.
VOLUSIO.
Ora in quel di Romano:
e ognor di tuo nimico.
PIRRO.
Con qual idea?
SESTIA.
(Mi fa tremar.)
VOLUSIO.
Non rendo
ragion di me, che a Roma.
PIRRO.
Ti faranno parlar ruote, e flagelli.
VOLUSIO.
Chi petto ha per morir, l’ha per tacere.
PIRRO.
Sestia disse le trame. A che le taci?
VOLUSIO.
Perché chieder a me ciò che già sai?
PIRRO.
A uccidermi venisti.
VOLUSIO.
E ti salvai.
PIRRO.
Se il ciel non confondea gli empj disegni,
destinavi al tuo ferro
l’onor della mia morte.
VOLUSIO.
Tor dal mondo i tiranni atto è da forte.
SESTIA.
(Ardir, che mi spaventa.)
PIRRO.
O d’anima romana eccelso pregio
cercar da un tradimento i suoi trionfi.
VOLUSIO.
Gli cercai nel conflitto; e grazie rendi
alla mano che errò;
e che poi ti salvò, se in vita or sei.
CINEA.
In custodia del Re veglian gli Dei.
PIRRO.
Tu mi rinfacci una pietà non tua.
VOLUSIO.
Questo è il sol mio dolore,
che il nimico di Roma,
e di Sestia il tiranno in te ancor viva.
PIRRO.
A me Sestia rammenti? Ella ti perde.
SESTIA.
(Questo ancora in mia pena!)
VOLUSIO.
Tua morte io ritardai. Tu la mia affretta
verrà l’odio di Sestia in mia vendetta.
PIRRO.
Toglietelo al mio aspetto
per la mia tolleranza
gli si accresce furor.
VOLUSIO.
Dillo costanza.
Tre gravi beni avrò da morte
in mia pace, e in tuo dolore:
i miei dì chiuder da forte
e lasciar in Sestia un core,
che per te sia tutto sdegno,
e per me sia tutto amore.
Si parte con guardie.
Scena settima
Pirro, Sestia, e Cinea.
PIRRO.
Morte e pena, si avrai, che degna sia
della tua audacia, e dell’offesa mia.
SESTIA.
(Misera me.)
PIRRO.
Troppo il tuo duol sofferse,
Sestia, ti lascio in libertà di pianto.
Andiam Cinea.
CINEA.
Son teco.
PIRRO.
Supplice a me verrà.
Piano a Cinea.
CINEA.
Né pur d’un guardo
ne degna.
SESTIA.
(Che farò?)
PIRRO.
Che cor protervo!
Piano a Cinea.
Vana pietà qui più m’arresta. Andiamo.
A Cinea.
SESTIA.
Oimè! dove Signor? Che far pretendi?
PIRRO.
A dar morte all’iniquo.
SESTIA.
L’odio di Sestia avrai.
PIRRO.
L’amor non meritai. L’odio non curo.
SESTIA.
Movati il mio dolor.
PIRRO.
Del mio ti calse?
SESTIA.
Deh, se vuoi, che al tuo piè …
Volendo proseguire, vede Fabbrizio che la riguarda e le fa cenno.
PIRRO.
Cinea, tel dissi,
Piano a Cinea.
che supplice verria.
CINEA.
Sta ancor pensosa.
Piano a Pirro.
SESTIA.
(L’amor mi sprona. Mi spaventa il padre.
Sestia, che ha Roman petto, e ch’è sua figlia,
avvilirsi non dee … Ma il suo Volusio?; …
Guarda di nuovo il padre. Pirro e Cinea parlano sommesso.
vani saranni i preghi.
Si vorrà di sua vita,
che sia prezzo il mio amor.)
PIRRO.
(Non viene ancora?)
SESTIA.
Va pur. Volusio, e con lui Sestia mora.
A Pirro risoluta. Pirro guarda Cinea. Fabbrizio fa applauso a Sestia. Sestia sta dinuovo pensosa.
PIRRO.
Alma crudele,
senza pietà:
qui si fedele,
tuo caro amante,
si, morte avrà.
E nell’estremo
de‘ suoi sospiri,
sai, che dirà?
Non che il conquide,
la mia giust’ira;
ma che l’uccide
tua crudeltà.
Scena ottava
Sestia, e Fabbrizio.
SESTIA.
Barbaro sacrifizio
alla fede, e al dover!
FABBRIZIO.
Figlia, in soccorso
venni alla tua costanza,
e ne fui testimon. Con qual mia gioja,
questo amplesso tel dica.
SESTIA.
Ah! questo, o padre,
ch’io ricevo da te, sarà l’estremo.
FABBRIZIO.
Giovane incauto! Io ‚l salvo. È mio comando;
che alla patria ritorni;
e a me fidi il pensier della tua sorte:
e si perde egli stesso, e qui vien a morte.
SESTIA.
Tratto da quell’amor, che non ha legge.
Io feci il suo periglio. Ah! sua difesa
sii tu. Placagli il Re. Padre, tu ‚l puoi.
FABBRIZIO.
Ciò ch’io possa non so: ma poco onore
fora il mio, spettatore
starmi ozioso, e vano
sul rischio suo: non perché ei sia tuo sposo:
ma perché in lui v’è il cittadin Romano.
SESTIA.
Vita mi desti, e sposo:
serbami i cari doni.
Padre, se m’abbandoni,
padre non sarai più.
Temi il mio gran dolore.
A petto del mio amore,
poco sperar ti lasci
la debil mia virtù.
Si parte.
FABBRIZIO.
Che non fa amor paterno? Odami Pirro.
Si parte.
Gabinetto di Pirro con tavolino da scrivere.
Una porta nel mezzo, e un’altra laterale.
Scena nona
Cinea, e Pirro.
CINEA.
Qual pro dalla sua morte?
PIRRO.
Perderò un fier nimico;
punirò un’alma ingrata.
CINEA.
Fora miglior consiglio usar clemenza.
PIRRO.
Sestia non la implorò. Dall’esser chieste
le grazie de‘ Regnanti acquistan pregio.
Va, Cinea. Sotto l’armi
l’esercito disponi. Il campo tutto
vegga, qual si gastighi
chi alla vita d’un Re tenta gl’insulti.
CINEA.
Ma Signor …
PIRRO.
Va. Ubbidisci.
Il facondo tuo dir, cui più conquiste
deggio, che all’armi mie, fra suoi trionfi
non conterà quel del mio sdegno. Io voglio
che tremino una volta odio, ed orgoglio.
Va a sedere al tavolino. Lo ascolta alquanto poi scrive.
CINEA.
Scrivi. Lo vuol vendetta.
Scrivi la ria sentenza
sdegno la detta;
e poi?
Dolor succederà.
L’alma tornando in calma,
de‘ ciechi sdegni suoi,
seco si sdegnerà.
In questo viene il capitano delle guardie di Pirro a parlargli all’orecchio, e poi al cenno di Pirro si parte.
Scena decima
Pirro, e poi Fabbrizio.
PIRRO.
Il Romano orator? Venga.
Si leva.
Ei vien forse
a pregar per Volusio.
Nulla otterrà.
FABBRIZIO.
Re; per suo fato avverso,
o per folle consiglio,
Volusio è in tuo poter. Sia che ti giovi
crederlo delinquente; o reo tel mostri
un certo audace giovanil trasporto:
non aspettar che in suo favor m’adopri.
S’ei n’è degno, abbia morte. Iniquo è al pari
chi protegge le colpe, e chi le assolve.
Ma tu per esser giusto,
devi pria bilanciar demerto, e pena;
e non lasciar che da privato affetto
peso a‘ i falli s’aggiunga; e ne‘ gastighi
più che severità, sdegno abbia parte.
PIRRO.
Da molti anni, o Fabbrizio,
sopra popoli ho scettro;
e dal regnar so le virtù, e i doveri.
FABBRIZIO.
Questa rendon giustizia
più popoli al tuo nome, ed io con loro.
Ma l’amor proprio in certi casi un velo
ne distende su gli occhi,
che discerner gli oggetti
non ne lascia quai sien.
PIRRO.
Come? Volusio
qui non venne a tentar fino in mia stanza,
l’eccidio mio? La sola idea, ch’ei n’ebbe
lieve colpa a te sembra? A tali eccessi
pena s’indugerà, per dar poi tempo,
che a maturezza iniquità li tragga?
Eh, punir lui m’è forza;
o lasciar l’esser Re.
FABBRIZIO.
Dall’altrui rabbia
pur tua vita ei difese.
PIRRO.
Per privarmene ei stesso.
Ei nol seppe negar: né Sestia il tacque.
FABBRIZIO.
E ben. Soffra il supplizio
del mal ch’ei non ti fece;
e del ben che ti fece obblio ti prenda.
Ah! Pirro, se in Volusio
non trovassi il rival …
PIRRO.
Basta. T’intendo.
Il geloso amor mio fa, che in Volusio
il nimico mi finga, e l’assassino.
Ricadrà in mia vergogna
la già data sentenza. Orsù: da questa
macchia il mio onor si terga.
Si laceri il reo foglio; e tu che solo
Straccia la sentenza.
la grand’alma spogliar puoi d’ogni affetto,
giudica tu Volusio. Io tel rimetto.
FABBRIZIO.
Io giudice di lui?
PIRRO.
Sì. Tu di Pirro
sostien le veci. D’un Roman sul fato
un Romano decida:
ma giudicando rammentar ti dei,
che il Re d’Epiro, e non Fabbrizio or sei.
Scena decimaprima
FABBRIZIO.
Dura necessità, ch’esser io deggio
giudice di Volusio!
Di lui, che già m’elessi
in genero, anzi in figlio. E chi a tal legge
può costrignermi? … Chi? … Forse al protervo
fato, che il preme, esimerò il suo capo,
se il giudizio recuso?
Anzi più affanno a lui, più scorno a Roma
fia, che un barbaro Re sotto la scure
mandi un capo Romano
in figura di reo. No: non fia vero.
L’onta è comune. Mi dimandan questo
sacrifizio funesto e patria, e onore.
Il farò. Pirro il vegga.
Di Romana fortezza armati, o core.
Scena decimaseconda
Sestia, e Fabbrizio.
SESTIA.
Grazie a gli Dei; grazie al buon padre. Il Cielo
m’ebbe pietà. Tu dal furor di Pirro
m’hai Volusio protetto.
FABBRIZIO.
Onde il sapesti?
SESTIA.
Or or da Pirro istesso.
FABBRIZIO.
Che disse?
SESTIA.
Al genitore
chiedi il tuo sposo, egli ne ha l’arbitrio.
FABBRIZIO.
Ah, figlia.
SESTIA.
Che? Tu sospiri? Il Re m’avria delusa?
FABBRIZIO.
Pur troppo è ver. Da me il destin ne pende.
SESTIA.
E pena l’amor tuo quando mel rende?
Tu suocero di lui, tu padre mio? …
FABBRIZIO.
Giudice di Volusio ora son io.
SESTIA.
Giudice suo, potresti? …
FABBRIZIO.
Condannarlo, se reo.
SESTIA.
Deh! qual dal labbro
t’uscì barbara voce!
Che mai fece il meschin? Qui non si tratta
di perfide congiure,
o di sprezzate leggi, o di negletta
militar disciplina. Il sol suo fallo
è aver pensato, e non tentato un colpo,
per cui gli si dovria da te, e da Roma
premio, non che perdono.
FABBRIZIO.
Risponderti per Roma potrei:
ma Pirro, e non Fabbrizio or sono.
SESTIA.
Morrà dunque il mio sposo?
FABBRIZIO.
Sì: se giusto sarà.
Scena decimaterza
Volusio e i sopraddetti.
VOLUSIO.
Né ingiusta fia,
te giudice o Signor, la morte mia.
FABBRIZIO.
Volusio.
SESTIA.
O Dei! Volusio.
VOLUSIO.
Signor, che le altrui veci
qui adempì a giudicarmi,
quanto già mi risparmi
di orror! Veduto in Pirro
un tiranno qui avrei,
di tutti gli odi miei barbaro oggetto:
ma poiché man sì cara
dee segnarne il decreto,
col più placido core, e col più forte
incontrar mi vedrai supplizio e morte.
FABBRIZIO.
Morte e supplizio a te verrà: ma allora
che dal giudice tuo sarai convinto.
VOLUSIO.
Lo so: il delitto, onde accusato io sono
sta nell’aver voluto uccider Pirro.
FABBRIZIO.
Nel conflitto era gloria; e qui era colpa.
VOLUSIO.
E qui …
FABBRIZIO.
Volusio or pensa
che il giudice di Pirro in me t’ascolta.
VOLUSIO.
M’ascolti e mi condanni.
SESTIA.
Ah! no. Se m’ami,
abbi di Sestia, abbi di te pietade.
Giustifica te stesso. Arte supplisca
ove manchi ragion.
VOLUSIO.
Che? mi vorresti
vile così? Tu ancor n’avresti orrore.
Tolga il Cielo, o Signore,
ch’io per tema di pena il ver t’asconda.
Volli uccidere in Pirro
il nimico e il rival. Due faci all’ira
Roma, e Sestia accendea.
Il colpo che impedii non mi discolpi
da quello che non feci,
e che s’ora potessi, io pur farei.
Per la patria e per te morendo, o sposa,
non mi posso pentir degli odj miei.
FABBRIZIO.
Figlia, del tuo Volusio
prendi l’ultimo addio.
SESTIA.
L’ultimo? Ah! padre.
FABBRIZIO.
E lagrime e querele
con me risparmiar puoi.
E se al dolor non sai far petto, altrove
sul destino di lui piangi se vuoi.
SESTIA.
Misero! Oh! Pirro ancora
fosse il giudice tuo! Potrei sperarlo
inesorabil meno;
o qualche sfogo almeno
potrei dare al mio affanno,
la fierezza accusando
del carnefice tuo, del tuo tiranno.
FABBRIZIO.
Sestia …
Fiero.
SESTIA.
Oimè! Ne‘ trasporti
del mio dolor perdo ragion. Perdessi,
così anche vita. Padre
tutto usa il tuo rigor. Mal lo dividi
me ancor condanna, se Volusio uccidi.
VOLUSIO.
Cara Sestia, a‘ lamenti
pon freno. In pace soffri
la morte mia. Non accusarne il padre.
Incolpane il mio fato.
SESTIA.
E fato, e sposo, e Pirro, e Roma, e padre,
tutto iniquo è per me, tutto spietato.
FABBRIZIO.
Non più. Già non facesti
abbastanza arrossir de‘ tuoi sospiri.
I tuoi ciechi desiri, onde vorresti
e me ingiusto, e lui vil, dal core esiglia
vanne, e sii meno amante, o sii più figlia.
SESTIA.
Che barbara sorte!
Lo sposo va a morte:
il padre il condanna:
che sorte tiranna.
E ancor mi si vieta
lo sfogo al martir.
No, padre, no, sposo.
Puoi tu troppo austero,
tu troppo pietoso
vietarmi il lagnarmi:
ma tormi non puoi
l’amar e il morir.
Scena decimaquarta
Fabbrizio e Volusio.
FABBRIZIO.
Qualche all’amor, qualche fiacchezza al sesso
dee perdonarsi.
VOLUSIO.
Qual da Pirro schermo
resterà all’infelice?
FABBRIZIO.
Il tuo esempio, e il suo amore
non temer.
VOLUSIO.
Si consoli
della perdita mia.
FABBRIZIO.
Cara a lei sempre
sarà la tua memoria.
VOLUSIO.
Abbia per Pirro
odio al pari del mio.
FABBRIZIO.
L’avrà qual deve
al nimico di Roma.
VOLUSIO.
E tu in Roma difendi
la gloria mia.
FABBRIZIO.
Sapranno
e Consoli, e Tribuni,
che da forte cadesti, e con la lode,
de‘ tuoi stessi nimici.
Volusio, addio. Più che di Sestia il duolo,
mi stringe il cor la tua virtù. Te questa
accompagni alla tomba; e fra tuoi vanti
allora avrai sin di Fabbrizio i pianti.
Scena decimaquinta
VOLUSIO.
Vivrà in Sestia il mio amor. Vivrà ne‘ fasti
de‘ Romani trofei la mia memoria.
Che più bramar? Bello è il morir con gloria.
Tra l’onore e tra l’amore
si divida quel respiro
in cui l’alma scioglierò.
Diami Roma un sol sospiro
una lagrima il mio bene;
e contento allor morrò.
Campo attendato di Pirro.
Scena decimasesta
Pirro e Cinea, seguito di capitani, e di Soldati macedoni.
CINEA.
La sentenza è già data.
PIRRO.
E nulla il mosse
la sua amistà? Nulla di Sestia il pianto?
CINEA.
Pregio è d’alma Romana all’equitade
sacrificar figli, congiunti, amici.
PIRRO.
Come! in Fabbrizio il fier decreto è giusto?
Ed ingiusto era in Pirro?
Non l’intendo, o Cinea.
CINEA.
V’è gran divario,
sire, tra il dar consiglio, e il porlo in opra.
Spesso s’insinua come onesto, e retto,
ciò che in se si conosce iniquo, e torto.
PIRRO.
Taci: e lui vedi in suo pensier raccolto.
CINEA.
Del tranquillo suo cor fa fede il volto.
Scena decimasettima
Fabbrizio con seguito di Romani, poi Turio e i suddetti.
FABBRIZIO.
Nel da me condannato
Volusio, o Pirro, il tuo giudizio assolvo.
Nulla in ciò più mi resta
d’arbitrio. In lui t’aggrada
far la pena eseguir? Giusto sarai.
Rivocarla? Pietoso.
Tra giustizia e clemenza,
segui quel calle, ove il gran cor ti chiama,
da lunge a me la fama
ne perverrà.
PIRRO.
Che? Tu partir? Si rende
qui al tuo merto ogni onor.
FABBRIZIO.
Roma mi attende.
A lei tacerò Sestia;
Volusio tacerò. Dirò, che Pirro
a difender s’ostina
Tarentini, e Sanniti: a‘ prigionieri
nega cambio, e riscatto; e che a lui piace
ingiusta guerra, più che onesta pace.
PIRRO.
Oh! s’uom sì grande ognor potessi al fianco …
FABBRIZIO.
Qual io mi sia, tu non conosci appieno.
Fabbrizio prende in mano una carta.
CINEA.
Che fia?
FABBRIZIO.
Non di nimici, e non d’amici
sei buon giudice, o Re. T’inganni in tutti.
Leggi, e vedrai, che a torto
La dà a Pirro.
fai guerra a‘ i buoni, e a‘ malvagi hai fede.
Né pensar già che amor di te mi spinga
l’empie trame a svelarti.
Vien Turio col suo seguito.
Quel vero amor che in nobil petto alligna,
da me l’esige. Onta farebbe a Roma,
saper le insidie, e te soffrirne oppresso;
e crederia la terra,
che dando braccio a iniquità sì enormi,
ne mancasse valor per farti guerra.
PIRRO.
O perfidia! o virtù! il Turio! Ingrato
Dopo aver letto.
popolo!
TURIO.
(Ah! siam traditi.)
PIRRO.
Cinea, si vuol della mia morte in prezzo
l’amicizia di Roma. A me s’appresta,
in mercé di perigli, e di sudori,
letal bevanda. Inorridisci; e leggi.
Dà la carta a Cinea.
TURIO.
(O Ciel!)
FABBRIZIO.
Fé non si serba a‘ traditori,
Verso Turio.
PIRRO.
Se in mio favor fai tanto,
nimico ancor, che mai faresti amico!
FABBRIZIO.
L’onesto oprar di chi ben opra è il fine.
CINEA.
Mio Re, sia tempo omai che generoso …
PIRRO.
A me Sestia, e Volusio
Alle guardie.
sforzo ah quanto funesto al mio riposo!
Scena ultima
Sestia, Volusio, poi Bircenna, e i suddetti.
SESTIA.
Teco morir vo‘ anch’io.
A Volusio.
VOLUSIO.
Sestia crudel! Sì mi consoli?
SESTIA.
O Dio.
PIRRO.
Per resister a Roma
e per vincerla ancor petto ho che basta,
e forze ancor. Sol tua virtù m’ha vinto.
Riedi invitto al tuo Lazio.
Te seguano giulivi
i Romani cattivi; a te gli rendo:
te Volusio già assolto; a te lo dono.
E Sestia a me ancor cara … Ah dir nol posso,
che non ne frema il core;
col suo amante fedel segua il buon padre
e obblii di Pirro l’infelice amore.
VOLUSIO.
In un barbaro Re spirti sì eccelsi?
SESTIA.
Che gioia inaspettata.
PIRRO.
Se mia gloria il soffrisse,
darei pace anche a Roma.
Non che più di costoro
siami a cor la difesa; io gli abbandono
alla loro viltade, e al lor rimorso:
ma trar d’Italia il piede, e dalle tempie
strapparmi io stesso i già raccolti allori
parria viltà. Guerra con Roma io voglio
guerra d’onor, non d’odio: e un dì m’accolga
vincitore, o anche vinto il Campidoglio.
FABBRIZIO.
Gran Re, non da trofei che ti dier l’armi,
ma da quei che or ti dà l’anima eccelsa,
Roma conoscerà che mai non ebbe
più dubbio Marte a sostener. Volusio
Sestia, i cattivi, io più di tutti, al Tebro
spargerem le tue lodi,
e l’armi appresterem. Ma credi, o Pirro,
che assai più che da guerra, e da vittoria,
vien da pace a un buon Re grandezza e gloria.
BIRCENNA.
E nel comun contento io sola, io sola
rimarrò desolata?
PIRRO.
No, Principessa attendi,
che meglio spente sien del primo incendio
le ancor fervide vampe.
Sol nell’alme incostanti
un amor l’altro incalza. Il mio vuol tempo.
BIRCENNA.
L’abbia. Ne son contenta.
Ma la mia fede, e il tuo dover rammenta.
CORO.
La gloria è un gran bene.
La brama ogni core.
PIRRO.
Di lei si compiace
chi in campo guerriero:
FABBRIZIO.
Chi in grembo di pace:
BIRCENNA.
Dal regno io la spero:
SESTIA E VOLUSIO.
Io l’ho nel tuo amore.
Il Fine del Dramma
Licenza
Regno, amor, guerra, pace e gli altri pregi,
per cui gloria s’ottien, di più grandi alme
son l’oggetto e il piacer. Qual va per uno
titolo, qual per altro illustre e chiaro:
ma tu sorgi per tutti,
nome d’immortal fama, Augusto Carlo
e come un sol trofeo formano insieme
raccolte e sovraposte armi, e vessilli;
così in sola tua gloria
alzano eterno monumento i regni
ereditati e i vinti;
e del pubblico amor gli ossequi e i voti;
e i bellici trionfi, e la costante
pace che doni, e che difendi. Accenno
i tuoi vanti o signor: ma di chi m’ode,
meglio l’idea gl’intende,
né lor fa torto la mia scarsa lode.
Così in picciola tela,
ove sia circonscritto il mondo intero
l’ampia mole di lui l’occhio non vede
ma l’intelletto ne comprende il vero.
Sudi l’arte: e qual formarti
statua può? Qual arco alzarti
ove ingegno, ed opra arrivi
i tuoi vanti a pareggiar?
Ma se impresso
resti quivi il Nome Augusto
si dirà che ei sol sé stesso
è bastante a celebrar.