Francesco Gasparini
Ambleto
Libretto von Apostolo Zeno und Pietro Pariati
Uraufführung: 26.12.1705, Teatro San Cassiano, Venedig
Attori
Ambleto, erede legittimo del regno amante di Veremonda
Veremonda, principessa di Allanda, amante di Ambleto
Fengone, tiranno di Danimarca
Gerilda, moglie di Fengone, e madre di Ambleto
Ildegarde, principessa danese
Valdemaro, generale del Regno
Siffrido, confidente di Fengone, e capitano delle guardie reali
Atto primo
Portici interni della reggia.
Scena prima
Fengone, assalito da sicari, e Gerilda da un altro lato con guardie.
FENGONE.
Ah traditori! Olà, custodi, aita.
GERILDA.
Al vostro Re? Felloni,
vi costerà la vita.
FENGONE.
Inseguitegli, o fidi, e nel lor capo
recatemi un trofeo del valor vostro.
Per te vivo, o consorte.
GERILDA.
[Iniquo mostro!]
FENGONE.
Tanto deggio al tuo amor.
GERILDA.
Dì, al mio dovere:
che in me trovi la moglie, e non l'amante.
FENGONE.
Sposa di un anno ancor nimica?
GERILDA.
Ancora
L'ombra vien di Orvendillo, il morto sposo,
a turbar nel tuo letto i miei riposi.
Quel, che stringi, ei mi dice,
è il carnefice mio. Queste ferite
opre son del suo braccio;
e se nol vieta il cielo,
quel braccio istesso alza già il ferro, e in seno
già lo vibra di Ambleto, il caro figlio.
E tu, barbara madre, empia consorte,
e lo soffri? e lo abbracci? Oh Dio! Da gli occhi
si dilegua frattanto
l'ombra col sonno, e sol vi resta il pianto.
FENGONE.
Ah, Gerilda, Gerilda,
e quai sonni trar posso
se non di amor, di sicurezza almeno
a te nimica in seno?
GERILDA.
Odi, Fengon. Son tua nimica, è vero.
Bramo il tuo sangue: bramo
la mia vendetta. Esser vorrei tuo inferno
per dare a me più furie; a te più doglie;
ma con tutto quest'odio io ti son moglie.
Nel tuo sen, crudel vorrei
vendicare il mio dolor:
ma si oppone a‘ sdegni miei
quella fede, che ti diede
la virtù, non mai l'amor.
Scena seconda
Fengone e Siffrido.
SIFFRIDO.
Grazie a gli Dii. T'inchino
fuor di periglio, o Re. (Perfida sorte!)
FENGONE.
Di Gerilda l'amor mi tolse a morte.
SIFFRIDO.
Ma qual duolo ancor serbi?
FENGONE.
Goder poss'io con mille insidie al fianco?
SIFFRIDO.
Del felice tuo impero
meglio intendi ‚l destin. Vinta è l'Allanda.
FENGONE.
Trofeo di Valdemaro, il Duce invitto.
SIFFRIDO.
Veremonda è tua schiava.
FENGONE.
[Anz'io sua preda.]
SIFFRIDO.
Ambleto è in tuo poter.
FENGONE.
Pur ne pavento.
SIFFRIDO.
Che puoi temer d'un forsennato? Han tolto
tante sciagure il senno all'infelice.
FENGONE.
Fors'egli finge.
SIFFRIDO.
È gelosia di regno.
FENGONE.
Siffrido, un gran timore ha un grande ingegno
cada egli pur.
SIFFRIDO.
Ch'ei cada?
Qual frutto avrai? D'odio e d'infamia.
FENGONE.
E ognora
dovrò temerne?
SIFFRIDO.
I tuoi sospetti accerta.
FENGONE.
Ma per qual via?
SIFFRIDO.
Di Veremonda un tempo
non arse il Prence?
FENGONE.
(Anch'io ne avvampo). È vero.
SIFFRIDO.
Non gli è madre Gerilda?
FENGONE.
De‘ suoi primi sponsali unico frutto.
SIFFRIDO.
Può a fronte di beltade, o di natura
l'arte coprirsi? E se pur anche Ambleto
sforza gli affetti, e fa tacere il sangue,
fanne a mensa real l'ultima prova;
che fra le tazze il simular non giova.
FENGONE.
Saggio consigli, e non si tardi all'opra.
Tosto la real caccia
vanne, amico, a dispor. Me chiama intanto
di Valdemaro il merto alla sua gloria.
SIFFRIDO.
Già serve al tuo destin sorte, e vittoria.
FENGONE.
Smanie di Re geloso,
datevi un dì riposo,
stanche di più penar.
Schiavo di rio sospetto,
son condannato, e astretto
me stesso a paventar.
Scena terza
Siffrido, e poi Veremonda.
SIFFRIDO.
Vanne, o crudel. Non sempre
la morte fuggirai, ch'io ti preparo.
Al caro padre, ed al german diletto,
dall'odio tuo svenasti,
questa vittima io deggio, e il fatal colpo …
(Qui Veremonda! Il suo dolor m'accora).
VEREMONDA.
Empia sorte, a me togliesti
e comando, é libertà.
Ma non nasce il mio dolore
da miseria, o da catene.
Quel che piango, è un maggior bene,
già delizia dell'amore,
or oggetto alla pietà.
SIFFRIDO.
Principessa al tuo pianto
fa ragione il mio duol.
VEREMONDA.
La mia sciagura
comincio a meritar, se tu la piangi.
La pietà di un fellon giusta la rende.
SIFFRIDO.
Ciò che par fellonia, sovente è fede.
VEREMONDA.
Arte è d'anima rea finger virtude.
SIFFRIDO.
Ma si giudica il cor sol dall'esterno.
VEREMONDA.
Ma l'opre son testimon del core.
SIFFRIDO.
Non move il mio, che zelo, fede, e onore.
VEREMONDA.
Del tuo ucciso Monarca
rispettar l'uccisor: servir l'iniquo
distruttor della Patria:
mirar dall'empio, e sofferirlo, e amarlo,
il regno desolato, e sin ridotto
alla miseria, oh Dio! degna ch'io sempre
l'accompagni col pianto, il regio erede,
questo è onor? questo è zelo? e questa è fede?
SIFFRIDO.
È ver …
VEREMONDA.
Parti. Usar teco
più lunga sofferenza
o diventa mia colpa, o mio tormento.
SIFFRIDO.
Credimi reo: mi assolverà l'evento.
credimi, sì, qual vuoi,
perfido, e traditor: non ho discolpa.
Ma in mezzo a gli odj tuoi,
più sento il tuo dolor, che la mia colpa.
Scena quarta
Veremonda, e poi Ambleto con Ildegarde.
VEREMONDA.
Il so. Non ha discolpa il tradimento.
Ed è lusinga … Ah, che vegg'io?
ILDEGARDE.
Che pensi
Ad Ambleto.
AMBLETO.
vorrei saper …
ILDEGARDE.
Che mai?
AMBLETO.
Perché non piange
l'Aurora in Cielo, or ch'è prigione il Sole?
ILDEGARDE.
[Vezzose frenesie].
VEREMONDA.
[Pietoso oggetto!]
AMBLETO.
Io vi conosco, sì.
Tu Clizia sei, che segui
Ad Ildegarde.
ma senza speme, intendi ben, di Apollo,
che non ti ascolta i passi.
Tu Citerea. Ravviso
A Veremonda.
in quel ciglio, in quel labbro Amore assiso.
ILDEGARDE.
(Vaneggia e m'innamora).
VEREMONDA.
(L'idea dei primi affetti ei serba ancora).
Ambleto, ormai dà pace …
AMBLETO.
A chi favelli?
Questo Ambleto dov'è, dov'è?
ILDEGARDE.
Tu il sei.
AMBLETO.
Io Ambleto? E dov'è il padre?
Dove i vassalli? Veremonda? Il trono?
Ambleto è morto. Io l'ombra sol ne sono.
VEREMONDA.
(Misero Prence!)
ILDEGARDE.
Ove ten vai? che cerchi?
AMBLETO.
Cerco il cor, che perdei.
ILDEGARDE.
(Core di sì bel seno almen foss'io).
VEREMONDA.
(Tu non sei senza cor se tieni ‚l mio).
Ma quando lo smarristi?
AMBLETO.
Allor che la mia pace a me fu tolta.
VEREMONDA.
Chi tel rapì?
ILDEGARDE.
Chi lo possiede?
AMBLETO.
Ascolta.
A questi occhi giunse un dì
la bellezza con amor,
e per gli occhi in sen mi entrò.
Quando poi da me partì,
se ne uscì con essa il cor,
e l'amore vi restò.
ILDEGARDE.
Dunque ancor sei amante?
AMBLETO.
Ma dove, dov'è Ambleto?
Dov'è il mio cor? forse in quel sen racchiuso?
A Veremonda.
No, no: ch'egli è di neve,
e il mio povero cor è tutto foco.
VEREMONDA.
(Mi struggo di pietate).
ILDEGARDE.
(Ardo di amore).
Veremonda che tardi? A Valdemaro,
nel suo nobil trionfo,
la tua dimora il più bel fregio invola.
(Così col bel che adoro io resto sola).
VEREMONDA.
Si ubbidisca la sorte.
Le sventure di Ambleto
veder senza morir più non poss'io,
perché il duol, ch'ei non sente, è dolor mio.
Nel furor de‘ suoi delirj
trovo ancor la sua beltà.
E l'affetto
dice a me, che i miei sospiri
son di amor, non di pietà.
Scena quinta
Ildegarde ed Ambleto.
ILDEGARDE.
[Or si tenti ‚l destin] Prence.
AMBLETO.
Non vedi?
Partito è il Sol: tutto si oscura il giorno.
Deh, nasconditi, fuggi.
ILDEGARDE.
Almen …
AMBLETO.
Vanne al destino, e dì, che ormai
faccia spuntar quel giorno, in cui si stia
col diadema real …
ILDEGARDE.
Chi?
AMBLETO.
La Pazzia.
ILDEGARDE.
Sentimi.
AMBLETO.
Hai tu il mio scettro?
Hai tu il mio regno?
ILDEGARDE.
In questo sen l'avrai.
AMBLETO.
Incauta farfalletta,
l'ali perder potrai,
se del foco a‘ tuoi rai qui più ti raggiri.
ILDEGARDE.
Sembran furie, e son grazie i suoi deliri.
Non so qual sia
maggior follia
o il danno della mente, o il mal d'amore.
So ben, che uguali
son questi mali,
il viver senza senno, e senza core.
Scena sesta
AMBLETO.
Questa sola mi resta, iniqui fati,
per le miserie mie strada infelice?
Ciò che sperar dovea
dalla madre, da sudditi, dal sangue,
dal pudico amor mio, dal mio valore,
m'imponete ch'io deggia ad un inganno?
Pur se giova, si finga; e i giusti sdegni
copra follia, purché si viva, e regni.
Stelle voi che de‘ regnanti
le fortune in ciel reggete,
proteggete la mia speme,
se placate
un dì mirate
l'innocenza dei miei pianti,
già respira e più non teme.
Piazza per gli spettacoli.
Scena Settima
Valdemaro con seguito, e poi Veremonda.
VALDEMARO.
Tromba in campo, e spada in guerra
più non armi i suoi terrori.
Abbiam pace, abbiam vittoria.
Volto il ferro in miglior uso,
sol le glebe opra la terra,
e coltivi eterni allori,
Dania invitta alla tua gloria.
VEREMONDA.
Eccomi Valdemaro. A‘ tuoi trionfi
servano pur di Veremonda i ceppi.
Tuo pregio è ch'io gli tragga, ed è mio vanto
trargli in trofeo senza viltà di pianto.
VALDEMARO.
S'io per tuo scorno, e per mio fasto agli occhi
della Dania, ti esponga, a te lo dica
quel rispettoso amor …
VEREMONDA.
Dì amor non parli
a infelice beltà chi tal la rese.
VALDEMARO.
Del nimico le offese
risarcirà l'amante.
VEREMONDA.
Tardo è il riparo, e la cagion n'è vile.
VALDEMARO.
Non condannar di tua beltà i trofei.
VEREMONDA.
Se piacciono a un nimico,
son ribelli al mio cor sin gli occhi miei.
Scena ottava
Fengone con guardie, e i suddetti.
FENGONE.
Fra queste braccia, ed all'onor di questi
spettacoli di gioia
vieni, illustre campione, invitto Duce.
Vincesti: eguale al merto
premio si dee. Tua sia la Falstria. È degno,
che stringa scettro il difensor d'un regno.
VALDEMARO.
Si è vinto, o gran Monarca,
che l'armi tue, con la tua gloria. Pure
se qualche prezzo all'opra
vuoi conceder, Signore, ecco i miei voti.
Suddita alle tue leggi
Falstria rimanga. In dono, ed in mercede
sol si dia Veremonda alla mia fede.
FENGONE.
Duce …
VEREMONDA.
No. A Veremonda,
benché vinta, e cattiva
si lasci in libertà ch'ella risponda.
La ragion, che ti diero armi, e fortuna
su la mia vita, è tuo trofeo. Di questa,
Valdemaro, disponi. Io son tua spoglia,
ma che ingiusto tu voglia
stender ancor sopra gli affetti miei
l'autorità della vittoria, e il frutto,
soffri ch'io il dica, è tropp'orgoglio, o Duce.
Libera ho l'alma, e in lei
le tue conquiste alcun poter non hanno.
Tu sei mio vincitor, se vuoi mia vita;
ma se pensi al mio cor, sei mio tiranno.
E tu, Signor, che in fortunato impero
reggi la Dania, ed hai propizio il fato,
non ti abusar del suo favor. Sostieni
contro un superbo amor la mia costanza;
né soffrir, che trionfi
su le perdite mie l'altrui baldanza.
FENGONE.
In me, Vergine eccelsa,
non troverai, qual pensi, un Re nimico.
Rasserena il bel volto, e tutto attendi
da un Re, che ti assicura, (e che ti adora).
VALDEMARO.
(Delusi affetti, e non morire ancora?)
FENGONE.
Se alle tue brame, o Duce,
Veremonda si oppone, il Re ne assolvi:
pur non andrai senza mercé. Qui tosto
venga Ildegarde. Intanto
meco ti assidi.
A Veremonda.
VEREMONDA.
Oh ciel! deh, col mio duolo
del trionfo il piacer non si funesti.
FENGONE.
Tutto a te si conceda.
VEREMONDA.
Nella mia,
sfortunata prigionia,
sospirando ti dimando
questa sola libertà.
Quando un'alma non è in calma,
piange solo
le ragioni del suo duolo,
e piangendo amar non sa.
Scena nona
Fengone, Valdemaro, e poi Gerilda.
FENGONE.
Vieni, o Duce, a gli onori.
VALDEMARO.
Meco piangete, o sfortunati amori.
GERILDA.
Fermati, o Re.
FENGONE.
Consorte.
GERILDA.
A un sol passo che inoltri, avrai la morte.
FENGONE.
Come?
VALDEMARO.
Che?
GERILDA.
Già rovina
la fatal pompa.
VALDEMARO.
O precipizii orrendi!
GERILDA.
E si apron tombe ove i trionfi attendi.
FENGONE.
Ed è ver, ch'io ti deggia …
GERILDA.
La vita, sì, per mia sciagura, iniquo.
FENGONE.
Ma chi l'inganno ordì? come, o Gerilda,
a te ne giunse il grido?
VALDEMARO.
Parla, scopri l'infido.
GERILDA.
Si svelò il tradimento:
si taccia il traditor. Dir quel dovea
la moglie di Fengon. Tacer dee questo
la moglie di Orvendillo.
FENGONE.
Chi mi lascia in timor, mi vuole in rischio.
GERILDA.
Piacemi, che principj
sin della mia pietà la mia vendetta.
FENGONE.
Deh, consorte diletta …
GERILDA.
Addio. Rimanti
salvo per me, per me di vita incerto.
Prega gli Dei, che tutti
mi giungano a l'orecchio i tuoi perigli:
che di me non avrai miglior difesa.
Ma ti vegliano ancora
tanti nimici, e tante insidie intorno,
che possibil non è la tua salvezza.
Stanno l'odio, e la morte alle tue soglie:
temi ciascun: sol non temer chi è moglie.
Scena decima
Fengone, Valdemaro, e Ildegarde.
FENGONE.
Duce. Vedesti mai
più severo favor? Pietà più cruda?
VALDEMARO.
Stupido resto, e temo.
ILDEGARDE.
Qui per tuo cenno …
FENGONE.
Bella.
ILDEGARDE.
Tal parvi a gli occhi tuoi,
quando …
FENGONE.
Frena le accuse. In Valdemaro
avrai chi risarcisca
l'infedeltà di un Re. Tu sei sua sposa.
Ti sorprende la gioia? In Ildegarde,
duce, avrai la mercé del tuo valore.
Ti confonde il piacer?
VALDEMARO.
(Di sdegno avvampo).
ILDEGARDE.
A Valdemaro io sposa?
FENGONE.
Sì: l'arte io so di una beltà ritrosa.
ILDEGARDE.
Del tradito amor mio
così compensi il danno?
FENGONE.
Eh, che i Grandi in amor legge non hanno
or prepara Amor due dardi,
e sen viene al nostro cor,
e per darvi egual ardor,
nel balen de‘ vostri sguardi
due facelle accende amor.
Scena decimaprima
Ildegarde, e Valdemaro.
ILDEGARDE.
Vanne, o perfido, va. Sentimi, o Duce.
Non è disprezzo, no, non è rifiuto,
il negarti la destra; è una ragione
del cor ch'è già perduto in altri lacci.
VALDEMARO.
Con l'esempio del mio lodo il tuo core.
Ma dimmi ami Fengone.?
ILDEGARDE.
Adoro Ambleto.
VALDEMARO.
Segui ad amarlo. (Essa un rival mi toglie).
Io Veremonda.
ILDEGARDE.
Segui.
Segui, e spera mercé. Le sue catene
la renderan men fiera.
VALDEMARO.
Essa è troppo crudele.
ILDEGARDE.
Eh, segui, e spera
Si parte.
VALDEMARO.
La speme del Nocchiero è in una stella;
e nella speme ha la tua stella amore.
Se l'uno è abbandonato, ahi, che procella!
Se l'altro è disperato, ahi, che dolore!
Parco reale.
Scena decimaseconda
Gerilda e Siffrido.
SIFFRIDO.
Due volte il fato estremo
pendé sul capo al regnator tiranno.
GERILDA.
E due volte per me non cadde l'empio.
SIFFRIDO.
Ma, Regina, perché? Tu stessa al colpo
sproni la fede, e poi la man disarmi?
GERILDA.
Chi sa oprar, e tacer, può vendicarmi.
SIFFRIDO.
Solo a Gerilda io confidai l'arcano.
GERILDA.
Far che il sappia Gerilda, egli è un tradirlo.
SIFFRIDO.
E una moglie Regina
tacer potrà ciò ch'io tentai.
GERILDA.
Ti affida,
se la trama perì, l'autor n'è salvo.
SIFFRIDO.
Ma non hai salvo il figlio,
cui dal trono sovrasta odio, e periglio.
GERILDA.
Oh Dei!
SIFFRIDO.
Qui ‚l Re. Cela il tuo duol.
Scena decimaterza
Fengone con seguito, e i suddetti.
FENGONE.
Siffrido,
persiste ancor nel suo tacer Gerilda?
SIFFRIDO.
Seco perduta è l'arte.
GERILDA.
Piace, perch'è tua pena, a me l'arcano.
SIFFRIDO.
Comanda un Re.
FENGONE.
Prega un marito.
GERILDA.
È vano.
FENGONE.
Furor ti regge, e tu ragion lo credi.
Ma poiché la salute
di un fellone ti è a cor, più che la mia
ceda l'amor. L'esempio tuo si segua.
L'odio, il furore non si risparmi omai.
GERILDA.
Ah, t'intendo, o tiranno.
FENGONE.
Tu mi chiami tiranno, e tu mi fai.
GERILDA.
Dove pensi ferirmi, il cor mi dice.
Moglie non temo, e temo genitrice.
Pur senti, io non impetro
lagrimosa al tuo piè, che viva il figlio.
Ambleto, e se non basta,
pera anche il regno, anche Gerilda mora,
ma il carnefice tuo fia vivo ancora.
Minacciami, lusingami
con l'odio, o con l'amor. Saprò tacer,
se vieni sposo amante,
dirò: non vo‘ goder;
se barbaro regnante,
dirò: non so temer.
Scena decimaquarta
Fengone e Siffrido.
FENGONE.
Qui, Siffrido, saprò se Ambleto sia
o politico, o stolto.
Qui verrà Veremonda.
Tu parti. Un cauto amore
quand'ha chi osservi, ha i suoi riguardi, e tace.
SIFFRIDO.
E beltà, quando è sola, è ancor più audace.
Scena decimaquinta
Fengone, e poi Veremonda.
FENGONE.
Viene la bella. Oh quale
mi si accende nel sen voglia amorosa!
Ma sinché rode il petto
tarlo di gelosia, taccia l'affetto.
VEREMONDA.
Eccomi a‘ cenni tuoi.
FENGONE.
Mia Principessa,
che a te non toglie il grado
chi ti tolse l'impero, a me chiedesti
di frenare il desìo di Valdemaro.
Il feci, o bella.
VEREMONDA.
E fu cortese il dono.
FENGONE.
Per me non fosti al suo trionfo esposta,
spettacolo infelice.
VEREMONDA.
E fu dono gradito il mio contento.
FENGONE.
Or di mia cortesia, de‘ doni miei
ti chieggio una mercé.
VEREMONDA.
Giusta? L'avrai.
FENGONE.
Ambleto già ti amò: Tu pur l'amasti.
Vo‘ saper, s'ei sia folle, o s'ei s'infinga.
Già m'intendi. A momenti
qui giungerà. Con esso
rimanti in libertà. Lascia, che sfoghi
senza contrasto il genio antico, o parli
in sua balia, qual parla altrui, da stolto.
VEREMONDA.
Cieli!
FENGONE.
Ei vien. Qui mi celo, e qui l'ascolto
Si ritira.
Scena decimasesta
Ambleto da cacciatore, e Veremonda.
AMBLETO.
Quante belve han queste selve,
tante furie ha questo petto.
VEREMONDA.
(Ch'io conspiri a tradir l'idolo mio?)
AMBLETO.
Tormentato, lacerato,
sente il mal … (Che vegg'io? Qui Veremonda!)
VEREMONDA.
(In sen palpita l'alma).
AMBLETO.
(Dopo tante tempeste ecco una calma).
VEREMONDA.
(Sfortunato cimento).
AMBLETO.
(Son pur solo, o speranze).
VEREMONDA.
(Ahi, che far deggio?)
AMBLETO.
(Or le dirò che sol d'amor vaneggio).
Oh del mio cor fiamma innocente, e chiara,
questo è pur … ma che fia? né meno un guardo?
VEREMONDA.
(Mi fa ingegnosa il rischio suo).
Scrive col dardo in terra.
AMBLETO.
(Pur solo
mi veggio. A che tacer?)
VEREMONDA.
(Leggesse almeno).
AMBLETO.
Eccoti al pie‘ misero sì, ma sempre …
(E tuttavia mi sdegna?)
Guarda per la scena.
VEREMONDA.
(Incauto ei cancellò le fide note:
ma le rinnovi il dardo. Amor mi aita).
Torna a scrivere per terra col dardo.
AMBLETO.
(Son perduto, ma infida, e sorda, e ingrata,
sappia quant'io l'adoro, e s'ella poi
pietà mi nega, e fede,
qui se le mora al piede).
Volgetevi pietose, o luci amate,
almeno a rimirar le mie ferite.
VEREMONDA.
Io ti ho ferito? mira
Il ferro del mio dardo. Ei del tuo sangue
tinto non è.
AMBLETO.
(Che leggo? Il Re ti ascolta.
Intendo). Lascia, sì, lascia, mia Dea,
ch'io baci un sì bel dardo.
VEREMONDA.
(Amor mi arrise).
AMBLETO.
Ma nel baciarlo ei mi addolcì le labbra.
Dimmi: l'hai tu di nettare, o di mele
sparso, Cintia gentil, Cintia, mio Nume?
VEREMONDA.
Che favelli? non vedi?
Son Veremonda, che Orvendillo un giorno …
AMBLETO.
Che parli di Orvendillo?
Si cancelli un sì bel nome,
e da‘ faggi, e dalle rupi.
VEREMONDA.
Perché?
AMBLETO.
Perché? Mei divoraro i lupi.
VEREMONDA.
(O cauto, o forsennato ei dice il vero).
AMBLETO.
Senti Diana. Han queste selve un mostro
fiero, e crudel, degno de‘ nostri dardi.
Tu mi reggi la destra, e a te divoto
ne recherò l'orrido teschio in voto.
VEREMONDA.
Deliri, o Prence.
AMBLETO.
Taci. Ecco la fiera
tra quelle frondi. Oh che bel colpo!
VEREMONDA.
Ferma.
Scena decimasettima
Fengone e i suddetti.
FENGONE.
Cotanto audace?
AMBLETO.
E chi sei tu? Rispondi.
VEREMONDA.
Il Re. Che? Nol conosci?
AMBLETO.
Il Re? Ah, ah, ah. Un satiro tu sei,
guardati, bella Dea, crudo, e lascivo,
nemico delle leggi, e de gli Dei.
FENGONE.
(Si avvalora il sospetto).
AMBLETO.
(L'ira qui può tradir la mia vendetta).
VEREMONDA.
Ambleto, ove ten vai?
AMBLETO.
Giove mi aspetta.
Quando io torni, voi vedrete,
che il baleno, il lampo, il folgore
meco in terra io porterò.
Le tempeste, le comete,
il terror, la strage, il fulmine,
e la morte in pugno avrò.
Scena decimaottava
Fengone e Veremonda.
FENGONE.
(Sono anche incerto). Il Prence
forse delira, e il suo maggior delirio
fu il partirsi da voi, luci adorate.
VEREMONDA.
A chi parli?
FENGONE.
A‘ tuoi lumi, ed al tuo core.
VEREMONDA.
Tiranno! Oh del mio nome
troppo debol virtù, se non spaventi
sì temerario ardire! Ardir troppo empio,
se della mia virtude oltraggi ‚l lume.
FENGONE.
Empio no, nol chiamar. Chiamalo cieco,
perch'è un ardir di amore.
VEREMONDA.
E parli meco?
Tu Re marito a Veremonda amori?
FENGONE.
Non sono eterne al cor di un Re, mio bene,
d'Imeneo le catene.
Meglio intendi un dolce affetto,
e saprai, che non ti offende.
Non è oltraggio, ma rispetto
quel desìo, che in me si accende.
Scena decimanona
VEREMONDA.
A tante mie sciagure
si aggiungerà l'indegno amor di un empio?
Ma si aggiunga. Del fato
vinsi tutto il furor. Vincasi ancora
tutto il poter di così rea baldanza,
ed abbia più trofei la mia costanza.
Quanto più gode
tra voi contenta,
oh selve amene,
la pastorella!
Qui forza, o frode
non la spaventa;
e col suo bene
di amor favella.
Il fine dell'Atto primo
Atto secondo
Cortile segreto.
Scena prima
Fengone, e Siffrido.
FENGONE.
Tanto seguì. L'arti deluse, e i vezzi
di beltà lusinghiera.
SIFFRIDO.
Pazzia già certa un fier rival ti toglie.
FENGONE.
E pur vive, Siffrido, il mio timore.
SIFFRIDO.
Se ragion nol sostiene, è un timor lieve.
FENGONE.
Basta che sia di Re, perché sia grande.
SIFFRIDO.
Deh, lascia …
FENGONE.
No: la madre
all'amante succeda,
fingerò con Gerilda,
che ribelli al mio scettro abbiano i Cimbri
scosso il lor giogo. Io Duce
uscirò al campo, e me lontano, ad essa
qui il supremo comando
concesso fia.
SIFFRIDO.
Qual n'è il tuo fin?
FENGONE.
La madre,
Vaga di dare al figlio i dolci amplessi
farà condurlo alle sue stanze. Iroldo,
della Reggia custode, e a me fedele,
staravvi occulto ad osservarne i detti.
SIFFRIDO.
E il vero intenderà de‘ tuoi sospetti.
FENGONE.
Tu taci, e scorta il Prence,
quando fia d'uopo, alla Regina.
SIFFRIDO.
Intesi;
[ma delle trame avvertirò chi deggio].
Scena seconda
Fengone, e Ildegarde.
FENGONE.
Venga Gerilda.
ILDEGARDE.
E in tale indugio, o Sire,
la gloria d'inchinarti abbia Ildegarde.
FENGONE.
Grata del nobil dono a me ten vieni.
È Valdemaro il primo
duce dell'armi nostre.
ILDEGARDE.
Il più forte guerrier, che stringa acciaio.
FENGONE.
Ornamento del Regno, amor del soglio.
ILDEGARDE.
Sì: ma perdona, o Sire …
FENGONE.
Che?
ILDEGARDE.
Con tutti i suoi fregi io non lo voglio.
FENGONE.
Ildegarde, rifletti,
che non son più il tuo amante. Io tuo Re sono.
ILDEGARDE.
E ad un Re, che fu amante, io rendo il dono.
FENGONE.
Se novo amor non ti avvampasse in seno,
non saresti sì audace.
ILDEGARDE.
I tuoi spergiuri in libertà mi han posta.
FENGONE.
Scopri l'oggetto, e l'imeneo ne approvo.
ILDEGARDE.
A chi già mi schernì, poss'io dar fede?
FENGONE.
Scettro ancor non stringea chi a te la diede.
ILDEGARDE.
Il crederti or mi giova. Adoro Ambleto.
FENGONE.
Stravagante desio!
ILDEGARDE.
Consola l'amor mio,
e lo lascia regnar sopra il mio core.
FENGONE.
Compiacerti non posso, incauta amante.
ILDEGARDE.
E la real tua fede?
FENGONE.
Un Re l'obblia, s'ella gli torna in danno.
ILDEGARDE.
Dovea farmi più accorta il primo inganno.
Prestar fede a chi non l'ha,
alma mia,
tu lo vedi, è frenesia;
tu lo provi, è vanità,
quando crede a un falso core,
è l'amore una follia,
è la speme una viltà.
Scena terza
Fengone, e Gerilda.
FENGONE.
[Si lusinghi costei]. Teco, o Gerilda,
cospirano a‘ miei danni anche i vassalli.
Già la Cimbria rubella
m'obbliga all'armi. Io partirò. Tu sola
serba l'arcano. Oh fosse
al par di quest‘ infidi
mia facile conquista anche il tuo core!
GERILDA.
Troppo fosti crudel per non averlo.
FENGONE.
Regina, odiami pur: le insidie occulta,
né più strugga la man del core i voti.
Pur luci amorose,
benché disdegnose,
sì godo in mirarvi,
che ad onta di vostr'ire io voglio amarvi.
GERILDA.
[Non s'irriti un amor che salva il figlio].
Signor, meno di affetto io ti richiedo
lasciami l'odio mio con più innocenza.
FENGONE.
Io parto. A te frattanto
tutto resti in balia l'alto comando.
Addio, diletta. È questo
l'ultimo forse. Io, se cadrò fra l'armi,
tu sarai sola il mio pensier estremo.
Felice me, se mi perdoni estinto;
e se di qualche fior questa, ch'io bacio,
candida mano, il freddo sasso adorna.
GERILDA.
Va, pugna, vinci, e vincitor ritorna.
FENGONE.
Su la fronte già cingo gli allori,
e felici ne prendo gli auspici,
luci care, dal vostro piacer.
Quegli sguardi, che armate di amori,
per ferire dan l'armi, e l'ardire,
e per vincer l'esempio, e il poter.
Scena quarta
Veremonda, e Gerilda.
VEREMONDA.
Son comuni i miei torti anche a Gerilda.
Arde di me il tuo sposo.
GERILDA.
Arde di te?
VEREMONDA.
Nel vicin bosco ei stesso
scoprì l'ardor. Con quale orror, tu il pensa.
GERILDA.
Tanto egli osò? Tu orror ne avesti?
VEREMONDA.
Come
favellar può di amor un Re marito
a vergine real senza oltraggiarla?
GERILDA.
E tu la grave offesa a me confidi?
VEREMONDA.
A te che sei consorte: a te, che in lui
non ritrovi, lo so, che il tuo tiranno.
GERILDA.
Non mi affligge il suo amor, piango il tuo inganno.
VEREMONDA.
L'inganno mio?
GERILDA.
Gerilda
non mai gli fu più cara.
VEREMONDA.
E appunto un core
quando cerca tradir, finge più amore.
GERILDA.
Eh, Veremonda, è l'uso,
sia senso, o bizzarria, d'alma regnante
questa mostrar soavità di affetto,
col parere incostante:
cercar più di un diletto;
voler piacer a molte;
molte ancor lusingarne;
e poi sol una amarne.
VEREMONDA.
Credi meno ad un empio, io ti consiglio.
GERILDA.
Tu meno al tuo bel ciglio.
Hai bel vezzo, hai bel sembiante
ma non sempre a labbro amante
dei dar fede, e lusingarti.
Facil cede alma, che crede;
e più vinci in men fidarti
di chi giura di adorarti.
Scena quinta
Veremonda e Valdemaro.
VEREMONDA.
Oh troppo, troppo semplice Gerilda!
VALDEMARO.
Veremonda, permetti
che teco l'amor mio …
VEREMONDA.
Non mi offende il tuo amor: che non vi è donna,
credilo, sì, donna non v'è, che irata
oda giammai di onesto amante i voti;
ma il tuo col mio destino,
voglion ch'io sia crudele, e tu infelice.
Amo Ambleto. Sì, l'amo. Hai per rivale
un che nacque tuo Re. Tu nel mio core
onora il di lui grado. Ha la tua fede,
ed ha la tua virtù questo dovere.
VALDEMARO.
Ambleto?
VEREMONDA.
Sì. Né basta
che tu sveni al suo nome i tuoi desiri;
convien, che tu il difenda
in questo sen. Qui la minaccia, oh ardire!
E qui l'insidia il Re con empia brama.
VALDEMARO.
Il Re?
VEREMONDA.
Dillo tiranno, e tale ei mi ama.
Scena sesta
Ambleto, e i suddetti.
AMBLETO.
(Che ascolto!)
VEREMONDA.
Sì: l'iniquo mi ama, e questo
de gli acerbi miei mali è il più funesto.
AMBLETO.
Flora, dimmi, sai tu l'aspra sventura
A Veremonda.
di quel bel Giglio?
VEREMONDA.
(Oh ciel, quanto è vezzoso!)
AMBLETO.
E tu, sai l'ardimento
A Valdemaro.
di quella serpe?
VALDEMARO.
Oh sfortunato Prence.
AMBLETO.
A me, poc'anzi a me
ne raccontò Zeffiro amico il caso.
Cinto di amiche rose un dì crescea,
bianco figlio dell'alba, un Giglio ameno:
ed un'ape innocente in esso avea
riposo al volo, ed alimento al seno.
Quando una serpe insidiosa, e rea
se gli accostò col suo crudel veleno;
e allor si udì fra il danno, e fra il periglio
pianger quell'Ape e sospirar quel Giglio.
VEREMONDA.
(Par che per me favelli).
AMBLETO.
Deh, accorrete in difesa a fior sì vago.
VALDEMARO.
(Seguir convien i suoi deliri). Taci,
che già fuggì l'infida Serpe altrove.
AMBLETO.
Ma torneravvi. Tu di acute spine
arma quel fior, e il custodisci illeso.
A Veremonda.
VEREMONDA.
Non temer.
AMBLETO.
E se torna
il suo nimico, e tu col piè lo premi
A Valdemaro.
(M'intendesser così).
VEREMONDA.
(Quanto il compiango).
VALDEMARO.
Accheta il duol. Me in tua difesa avrai.
Ma concedi …
AMBLETO.
Rimira
A Valdemaro.
qual s'erge al ciel denso vapor che oscura
di Febo i rai. (La gelosia mi uccide).
VEREMONDA.
(Tormentosi deliri!) Valdemaro,
alla tua gloria affido
l'onor mio, la mia pace; e mentre in essa
la mia salvezza io bramo,
la tua virtude in mio soccorso io chiamo.
Non è il fido al mio nido
dell'usignuolo il volo,
com'io son fida a te: ma non m'intendi.
Non è sì chiara e bella
di Amore in ciel la stella,
com'è la fé, ch'è in me: ma nol comprendi.
Scena settima
Ambleto, e Valdemaro.
VALDEMARO.
In me che speri, Amore?
AMBLETO.
Amor nel petto
chiuso trattieni? Io vo‘ che spieghi i vanni
prima a‘ bei rai della mia Diva, e poscia
meco venga a posar.
VALDEMARO.
Dove?
AMBLETO.
Sul trono.
VALDEMARO.
Come?
AMBLETO.
Non sai che il Re de‘ cori io sono?
VALDEMARO.
[Mi fa dolor benché rivale] Io parto.
AMBLETO.
Ferma. Dov'è il valore
della tua man? Vediamlo.
Dì: non sei tu di questo ciel l'Atlante?
Così lo reggi? Dì. Così ‚l difendi?
Ma questo, che sospendi al nobil fianco
illustre arnese, a te che serve?
VALDEMARO.
È il brando.
Stromento a‘ miei trionfi.
AMBLETO.
Sì: lo veggio,
e di pianto, e di sangue,
che sparse l'innocenza ancor fumante.
Vanne: e ad uso miglior da te s'impieghi.
Segui l'esempio mio.
Venga la clava, e si apparecchi intanto
de‘ mostri il sangue, e de‘ tiranni ‚l pianto.
Vieni, e mira, come gira
dalla cima fino al fondo
sconcertato tutto il mondo
non lo voglio più così.
Quella notte troppo dura,
ed oscura i rai del dì.
Non lo voglio più così.
Dì a quel monte che si abbassi,
perché i passi m'impedì.
Non lo voglio più così.
Scena ottava
VALDEMARO.
Valdemaro che pensi?
Sei reo con Veremonda, allor che l'ami;
e più sei reo, se brami
da un risoluto ardir la sua difesa.
Ma il lasciarlo in periglio
non è della tua gloria,
non è dell'amor tuo saggio consiglio.
Sì, ti sente l'alma mia,
amorosa gelosia,
sì, ti ascolta questo cor.
E l'affetto,
che nel petto ancor si asconde,
ti risponde
con le voci dell'onor.
Sala negli appartamenti di Gerilda.
Scena nona
Gerilda, poi Ambleto da guerriero.
GERILDA.
Caro adorato figlio,
non giungi ancor? Dacché mi trasse all'ara
vittima più che sposa il fier regnante,
svelto dal sen mi fosti; e più non vidi
quel volto, oh Dio, sol mia delizia, e gioia.
Vieni diletto figlio …
AMBLETO.
Su: qui tutto si accampi
l'esercito fatal dell'ire mie,
e giustizia, e ragion ne siano i duci.
GERILDA.
Viscere mie, mio sangue.
AMBLETO.
E sangue io voglio
Entra in una stanza.
GERILDA.
Deh ferma Ambleto. E non distrugge amore
que‘ fantasmi, quell'ombre,
che gli offuscan la mente?
AMBLETO.
Ov'è il nimico? Parla.
GERILDA.
Nimico qui? me non ravvisi, o figlio,
tua madre?
AMBLETO.
A chi madre?
GERILDA.
A te.
AMBLETO.
Sei mia tiranna e mia nimica
Entra in un'altra.
GERILDA.
O deluse speranze!
O tradito conforto!
Empio destin!
VOCE DI DENTRO.
Son morto.
GERILDA.
Cieli, che sarà mai?
Entra in una stanza.
AMBLETO.
Fu verace Siffrido. Or vada, vada
quell'ombra scellerata
al tiranno crudel nunzio di morte.
GERILDA.
Oimè che fece! Io temo
l'ira del Rè. So, che l'ucciso Iroldo
de‘ suoi fidi è il più caro.
AMBLETO.
Seguasi la vendetta.
GERILDA.
Mio caro figlio, in questo pianto almeno
non ravvisi ‚l mio core?
La madre non ravvisi?
AMBLETO.
Non ti ravviso, no. Madre ad Ambleto,
consorte ad Orvendillo era Gerilda.
Era in lei fede; era onestà, e virtude.
Ma tu, d'allor che al fianco
dell'empio usurpatore
macchiasti ‚l regio letto, e di Orvendillo
la memoria tradisti, altro non sei,
che adultera per lui, per me matrigna.
Smarrite or son le tue sembianze, e teco
sul trono ancor di regia morte intriso
regna il vizio, e l'orror. Non ti ravviso.
GERILDA.
O me felice! È vero,
è vero pur, che non sia stolto il figlio?
AMBLETO.
Oh Dei! così lo fossi:
che mi torria questa sciagura almeno
al senso de‘ miei mali, e de‘ tuoi scorni.
GERILDA.
Vieni, o viscere care, al sen materno …
AMBLETO.
Addietro o donna. Amplessi
comuni ad un fellone a me tu porgi?
A me stendi quel labbro,
che già stancar di un parricida i baci?
Va, misera, e gli serba a chi già infama
il tuo soglio, io tuo letto, e la tua fama.
GERILDA.
M'avea il piacer sinora
a rimproveri tuoi chiuso l'udito.
Ma già il silentio è stupidezza. Ascolta.
AMBLETO.
Che dir potrai, che te più rea non mostri?
GERILDA.
Dirò, che quanto io debbi,
diedi al tuo genitor …
AMBLETO.
L'urna reale
a novelli imenei cangiando in ara?
GERILDA.
Ah, che vi andai costretta. Io donna, e sola,
che far potea col regnator lascivo?
AMBLETO.
Pria che ceder, morir.
GERILDA.
Ma con qual ferro.
AMBLETO.
Può mancar mai la morte a un generoso?
GERILDA.
Manca anche questa o figlio,
in corte di un tiranno, allor ch'è dono.
AMBLETO.
E chi potea sforzarti ad abbracciarlo?
GERILDA.
Pria che sua moglie, esser dovea sua preda,
e lui drudo soffrir pria che marito?
AMBLETO.
Dovevi almen fra‘ primi sonni immerso,
nel talamo real lasciarlo esangue.
GERILDA.
Oimè Gerilda allor era sua moglie.
AMBLETO.
Anzi più che sua moglie era sua amante.
GERILDA.
Giuro agli Dei …
AMBLETO.
Spergiura,
siati pur caro il tuo novel consorte
soffri, ch'ombra dolente, e invendicata,
su le sponde di Stige erri Orvendillo
e che gema la patria
sotto il duro comando; e se non basta,
che vittima di Stato a piè ti cada
quel che chiami tuo figlio, iniqua madre.
Dopo tutto anche soffri,
che Regina ti esigli
che moglie ti ripudj il Re spietato.
Questo forse n'è il giorno, e il favor solo
che dal tiranno attendo,
del tuo ripudio è il disonore, e il duolo.
Della vendetta il fulmine
sopra di te cadrà.
Regina senza regno,
consorte senza sposo
non so se a riso a sdegno
ognun ti additerà.
Scena decima
Siffrido, e i suddetti.
SIFFRIDO.
Ah, Regina.
GERILDA.
Che fia?
SIFFRIDO.
Veremonda è rapita; e Valdemaro
audace la rapì.
AMBLETO.
Cieli!
GERILDA.
(Che sento).
SIFFRIDO.
Già son fuor della Reggia,
ed ei la tragge al vicin campo.
AMBLETO.
(Iniquo).
SIFFRIDO.
Non lasciar che impunite …
AMBLETO.
Non più, non più. (L'orme ne seguo). Udite.
(Ho nel cor la gelosia)
tu nel sen la fedeltà
A Siffrido.
della vendetta il fulmine
sopra di te cadrà.
A Gerilda.
Scena decimaprima
Gerilda e Siffrido.
GERILDA.
Siffrido, io son perduta. Ambleto uccise
poc'anzi Iroldo. Ei colà giace.
SIFFRIDO.
Il vidi.
GERILDA.
E nelle piaghe sue teme la madre.
SIFFRIDO.
Al difetto del senno
il perdono real facile io spero.
Non paventar. Avrai per la sua vita,
da‘ preghi suoi, dalla mia fede aita.
GERILDA.
Farò che sul ciglio
favelli il mio pianto,
sin tanto che il figlio
si renda al mio cor.
E‘ tenero oggetto
farò del rigor
di sposa l'affetto
di madre l'amor.
Scena decimaseconda
SIFFRIDO.
M'intese il Prence. Egli Iroldo in petto
del senno, e del valor scoprì le prove
per servir al mio sdegno a lui si serva
così quest'alma aspetta
dalla sua fedeltà la sua vendetta.
Allo scettro, al regno, al soglio
l'innocenza tornerà.
E cadrà
sotto il peso del suo orgoglio
atterrata l'empietà.
Sobborghi con tende in lontano.
Scena decimaterza
Valdemaro, e Veremonda con seguito.
VEREMONDA.
Qual, Duce, è il tuo pensier? dove mi guidi?
Già comincio a temer qualche tua colpa.
VALDEMARO.
Altra colpa non ho che l'amor mio.
VEREMONDA.
Fuor delle mura, e cinta
da tuoi soldati? Intendo. Valdemaro,
il tuo credei soccorso, ed è rapina.
VALDEMARO.
Anche questa rapina è tuo soccorso.
VEREMONDA.
Ambo ci guida al disonore un ratto.
VALDEMARO.
Questa è la via, che sola
ti salva da un tiranno.
VEREMONDA.
Espormi a un mal peggior quest'è salvarmi?
VALDEMARO.
Con fronte più serena
riedi alla libertà, riedi al tuo soglio.
Quel che lasci è prigion. Quel dove vieni
è campo amico. Il Duce,
lo moverò, riparator de‘ mali,
le tue Provincie a liberar dal giogo.
VEREMONDA.
Che resti Ambleto? e ch'io
segua altro amante? esser non può, cor mio.
Valdemaro fo farti
questa giustizia. In te stimar, che un ratto
sia pietà, non amor; virtù, non senso.
Ma basta ad offuscar limpido onore
un sospetto d'error, non che un errore.
VALDEMARO.
E quest'onor, se resti, più in periglio.
VEREMONDA.
Sii tu meco in difesa, e nol pavento.
VALDEMARO.
Che far posso se resto?
VEREMONDA.
Hai forze, hai core
per ripormi sul trono, e non l'avrai
per cacciarne un fellone?
VALDEMARO.
Nella sua Reggia
troppo è forte il tiranno; e il popol vile
avvezzo a tollerar, l'odia, ma il teme.
Combatterlo da lungi è più sicuro.
VEREMONDA.
Va dunque. Anch'io da lungi
applaudirò de‘ tuoi trionfi al grido.
VALDEMARO.
Nulla temer da un generoso amore.
VEREMONDA.
Meno amor ti richiedo e più virtude.
VALDEMARO.
Perder qui tempo è un trascurar salute.
VEREMONDA.
Ah vile. Anche la forza? è questo, è questo
il generoso amor, di cui ti vanti?
VALDEMARO.
Resisti invan.
VEREMONDA.
Crudele,
vuoi pianti, e preghi? eccoti preghi, e pianti.
Tu miri le mie lagrime,
e non le sente il cor? Crudel! così?
In te dov'è la fé?
Che fa la tua pietà? Rispondi. Dì.
VALDEMARO.
Quasi, ah, quasi mi vinse un sì bel pianto.
Ma il lasciarmi sedur saria fierezza.
Vieni.
VEREMONDA.
Verrò; spietato;
ma non speri il tuo amor, ch'odio e disprezzo.
VALDEMARO.
Di salvarti or desio, non di piacerti.
VEREMONDA.
Usa il poter. Mi giova
che ogni mio passo un tuo delitto sia.
VALDEMARO.
Salute, e amore ogni riguardo obblia.
VEREMONDA.
Valor troppo indiscreto!
Stelle, destin, chi mi soccorre?
Scena decimaquarta
Ambleto e i suddetti.
AMBLETO.
Fermati, Valdemaro.
Insultar Veremonda
senza oltraggiar me tuo Signor non puoi.
VEREMONDA.
Oh cieli! Ambleto, idolo mio, son questi
accenti di follia?
AMBLETO.
Dove, o mia cara,
s'agita il viver mio, fingo i delirj;
dove il periglio tuo, perdo i riguardi.
VALDEMARO.
(Credo appena all'udito, appena a‘ guardi).
AMBLETO.
Duce, m'hai nella parte
miglior dell'alma offeso.
Ten prescrivo l'emenda, e a te con quanto
di autorità può darmi
l'esser Principe tuo, parlo, e comando.
Ama la tua Regina;
ma di un amor che sia di ossequio, e fede.
Essa campion ti chiede, e non amante:
io suddito ti voglio, e non rivale.
Né guardar che io sia solo:
difeso è un Re dal suo destin. Costoro,
che ti stanno d'intorno,
pria che guerrieri tuoi, fur miei vassalli.
Rispetta il cenno, ed oggi
ch'io principio a regnar, mi è fausto e caro,
che il primo ad ubbidir sia Valdemaro.
VALDEMARO.
E Valdemaro il sia. Mio Re già sei.
Cedo il mio amor. Perdona,
se il difficile assenso
non può darti il mio cor senza un sospiro.
AMBLETO.
La tua virtù nel tuo dolor rimiro.
VEREMONDA.
Compisci, o generoso,
la magnanima idea. Quell'armi istesse
che voleva l'amor, mova il tuo zelo.
VALDEMARO.
Sì, ne più qui si tardi. Io vado al campo.
La non dee tosto esporsi
la persona real. Prima il suo nome
rispetto vi disponga, e amor vi desti.
Qui rimangan per poco
vostra difesa i miei guerrieri. Al piede
darà moto il periglio, al cor la fede.
Non dirò che ancora io v'ami,
e che il cor più non vi brami,
occhi bei non vi dirò.
Fra ragion che sa il dovere,
e beltà, che fa il potere,
dir l'amore non si deve,
e negarlo non si può.
Scena decimaquinta
Veremonda, e Ambleto.
AMBLETO.
Diletta Veremonda, egli è pur tempo,
che a cor franco io ti parli, e ch'io t'abbracci.
VEREMONDA.
Ambleto, anima mia, son così avvezza
al funesto mio duol, ch'esser mi sembra
misera nel contento.
AMBLETO.
Quando è immenso il piacer, meno si gode.
VEREMONDA.
Ah, che questa impotenza
è un presagio di mali.
AMBLETO.
Temer nel bene è un diffidar del cielo.
VEREMONDA.
Goder nel rischio è un lusingar le pene.
AMBLETO.
Qual rischio a te figuri.
VEREMONDA.
Il poter di un tiranno, e l'altrui frode.
AMBLETO.
Virtù ci affidi. Abbiam per noi, mia vita,
quella di Valdemaro, e più la nostra.
VEREMONDA.
Dunque al gioir, se lice.
AMBLETO.
E un momento felice
non occupi timor di male incerto.
VEREMONDA.
Piacer tranquillo è guiderdon del merto.
AMBLETO.
Godi, o cara, ma di un diletto,
che misura sia dell'amor.
Quell'affetto, che ben non gode,
quand'è in braccio del dolce oggetto,
è un affetto, di debol cor.
VEREMONDA.
Godo, o caro, quanto so amarti,
e sin godo nel tuo goder.
L'alma amante, che in me respira,
in te passa per abbracciarti,
e là s'empie del suo piacer.
AMBLETO.
Fugace godimento! Ecco il tiranno.
VEREMONDA.
E Valdemaro è seco.
A DUE.
Ah, siam traditi.
Scena decimasesta
Fengone con seguito, Valdemaro, e i suddetti.
VALDEMARO.
(Funesto incontro!)
FENGONE.
Ambleto, Veremonda,
fuor della Reggia? Tu prigion? Tu stolto?
VEREMONDA.
Sinché la tua vittoria
la libertà mi tolse; e le grandezze,
chinai la fronte al mio destin: ma quando
nel vincitor conobbi
il mio crudel tiranno …
FENGONE.
È tirannia, che amore
ti renda il ben che ti rapì fortuna?
VEREMONDA.
La gloria, e non l'amore a me lo renda.
VALDEMARO.
(O magnanimo ardire).
AMBLETO.
Che strani mostri
Pluton tu sei. Cerbero è quegli, e questa
Proserpina rapita.
FENGONE.
Vano è il pensier. Chi seppe
involar Veremonda al mio potere,
non è stolto, ma il finge.
VEREMONDA.
E pur t'inganni
nel volto di costoro
leggi qual sia della mia fuga il reo.
AMBLETO.
Son questi tante fere. Io sono Orfeo.
FENGONE.
Son questi Valdemaro i tuoi custodi.
VALDEMARO.
Signor, della mia fede
perdona all'amor mio le colpe. Offeso
il tuo sen non creder dalle mie brame;
e quando alla rapina io mi disposi,
pensai dentro al mio core,
non di torla al mio Re, ma al tuo rigore.
VEREMONDA.
(Reo si finge con l'empio).
AMBLETO.
(O traditore!).
FENGONE.
(È poderoso il Duce,
perché l'armi ha in balia. Seco si finga,
ma si riserbi il colpo).
Al valor del tuo braccio
tutta de‘ falli tuoi dono la pena.
Vanne alla Reggia, e svena al mio piacere
l'ardir del tuo valore.
AMBLETO.
(Oh scellerate frodi!)
VEREMONDA.
(Segno del tradimento
è un sì facil perdono).
VALDEMARO.
(Sapesse almen quanto innocente io sono).
Si parte.
Scena decimasettima
Fengone, Ambleto, e Veremonda.
FENGONE.
O sia stolto, o s'infinga,
del mio furor costui sia oggetto. A voi
la custodia ne affido. E tu prepara
quell'alma contumace, e quel bel volto
alle delizie mie.
VEREMONDA, E AMBLETO.
(Cieli, che ascolto!)
FENGONE.
Preparati ad amar
almen nel mio piacer
la tua felicità.
Perché il voler penar,
quando si può goder,
non è che crudeltà.
Scena decimaottava
Veremonda, e Ambleto fra guardie.
AMBLETO.
(Quel bel sen delizia ad un tiranno?)
VEREMONDA.
(Ch'io deggia amar nei suoi piaceri i miei?)
AMBLETO.
E il permettete.
VEREMONDA.
(E lo soffrite).
A DUE.
(Oh Dei?)
AMBLETO VEREMONDA A DUE.
Giove irato
sempre in cielo
avverso il fato
non sarà
(per te, mio bene).
Dal mio pianto
un dì placato
dal mio duolo
sì, che avrà
qualche pietà
(delle tue pene).
Il fine dell'atto Secondo
Atto terzo
Galleria d'Idoli.
Scena prima
Gerilda e Siffrido.
GERILDA.
Perirà dunque Ambleto?
E sarà la sua morte un tuo consiglio?
SIFFRIDO.
Sospenderla poss'io, se il Re s'impone?
GERILDA.
E se l'impone il Re, puoi tu soffrirla?
SIFFRIDO.
Soffrir convien ciò che impedir non puossi.
GERILDA.
Sei reo di più congiure e reo, Siffrido,
sei ancor di più morti.
Io, cui tutto affidasti,
tacqui sinor? Ma senti, ingrato. A questi
presenti Dei lo giuro.
Della vita del figlio
conto mi renderai con la tua vita.
SIFFRIDO.
Farò più che non vuoi per ubbidirti.
GERILDA.
E sarà il mio tacer la tua mercede.
SIFFRIDO.
Più che il timor mi moverà la fede.
GERILDA.
Or vanne, e col regnante
tu impiega il zelo; io tenterò l'amore.
SIFFRIDO.
L'amor.
GERILDA.
Sì che nel petto
per me gli avvampi.
SIFFRIDO.
Odi, Regina e parto.
Quel cor che traditor fu al suo regnante
può anco alla beltà farsi infedele.
Non è l'empio vassalo casto amante,
né mai tenero sposo è un Re crudele.
Scena seconda
Gerilda e Fengone con guardie.
FENGONE.
Fuor della Reggia appena
traggo il passo primier, che Iroldo è ucciso,
Veremonda è rapita, Ambleto fugge;
e colpevole ne sei tu sola o donna.
GERILDA.
Io?
FENGONE.
Chi può, né il ripara, il mal commette.
GERILDA.
Sono in nostre balie l'opre del caso?
FENGONE.
È dover di chi regge il prevenirlo.
GERILDA.
Non è sempre poter ciò ch'è dovere.
FENGONE.
Ma fia sempre tua pena il mio potere.
GERILDA.
Signor, se ami la madre il figlio serba.
FENGONE.
Ama più di sua vita il mio riposo.
GERILDA.
Deh mio Re, Deh, mio sposo …
FENGONE.
Olà. Qui Veremonda.
GERILDA.
Sì crudel con Gerilda?
Poss'io in odio l'amor? troncar ti aggrada
i giorni miei nel caro figlio? Almeno
m'uccidi in me, pria che svenarmi in lui.
FENGONE.
Piangi, o donna, i tuoi mali, e non gli altrui.
Scena terza
Veremonda e i suddetti.
VEREMONDA.
Eccomi al cenno.
FENGONE.
Veremonda, è tempo,
che, presente Gerilda, esca, e sfavilli
l'immenso ardor, che in me que‘ lumi han desto.
VEREMONDA.
(Ardor d'impura vampa).
GERILDA.
(Tanto su gli occhi miei?) Signor, se godi
finger per tormentarmi …
FENGONE.
Io fingo? Dani,
in fronte di costei più non si onori
il titol di sposa, e di Regina.
VEREMONDA.
Un sì ingiusto decreto …
FENGONE.
Or comanda lo sdegno,
e libero comandi. Quando amore
le sue leggi rescriva a Veremonda,
allora ella si opponga, ella risponda.
GERILDA.
La non creduta mia sciagura è dunque
tanto vicina? Ingrato,
dopo la marital giurata fede,
oggi, che più il tuo labbro
mi dié d'amor tenere prove, ed oggi,
ch'io il meritai maggiore
nella vita due volte a te serbata,
oggi …
FENGONE.
Sì, ti ripudio. Oggi mi piace
per farti più infelice esser più ingiusto.
VEREMONDA.
(Empio).
GERILDA.
Sarò infelice;
ma sarà il mio disastro il tuo castigo.
Perderò letto, e trono;
ma perderai tu ancor la tua difesa.
Moglie è ver, ti aborria; ma l'odio allora
costretto all'impotenza era mia pena.
Grazie alla tua fierezza,
che me ne assolve, e in libertà rimette
di vendetta, e di sfogo i miei furori.
FENGONE.
Parti, e di un Re più non turbar gli amori.
GERILDA.
Impero, vita, e amore,
crudel, ti turberò.
E tutta in tuo dolore
l'offesa cangerò.
Scena quarta
Veremonda, e Fengone.
FENGONE.
Sciolto dal grave laccio,
posso pur senza colpa
offerirti una man che ti alza al trono.
VEREMONDA.
Da‘ mali altrui felicità non cerco.
FENGONE.
Vieni o cara …
VEREMONDA.
Alla tomba?
FENGONE.
All'are sacre …
VEREMONDA.
Che or or contaminate ha un tuo ripudio?
FENGONE.
Nasce da questo sol la tua grandezza.
VEREMONDA.
Me la insegna a temer l'altrui caduta.
FENGONE.
Provoca l'ire chi il favor rifiuta.
VEREMONDA.
Meno dell'amor tuo temo il tuo sdegno.
FENGONE.
Ora il vedrem. Costui
quì se le guidi, e se le lasci Ambleto.
VEREMONDA.
(Oimè).
FENGONE.
Piega già stanco
Febo all'occaso. In vuote piume, o bella,
non vo‘ languido trar freddi riposi.
Tu vi verrai preda, o consorte. Ambleto
o deliri, o s'infinga,
le pene soffrirà di un tuo rifiuto.
Sì, Veremonda: la sentenza è questa:
pensaci: o la tua mano, o la sua testa.
Scena quinta
VEREMONDA.
La tua mano, o la sua testa?
Stelle! qual legge è questa?
Che farai, misero core?
Il crudel ti vuol sua preda:
in periglio è il caro amante.
Una ingiusta tirannia
vuol ch'io sia
o spietata, od incostante.
Scena sesta
Ambleto, e Veremonda.
AMBLETO.
Mi rinasce più bella, e più lieta
del piacer nel sen la speranza;
e de‘ mali vicino alla meta,
tutto il duolo diventa costanza.
VEREMONDA.
Quale speranza! Ambleto,
o la tua testa, o la mia man vuoi l'empio.
L'una, e l'altro è più che morte.
AMBLETO.
Alma mia, ti vo‘ più forte.
VEREMONDA.
Qual scampo in sì grand'uopo?
AMBLETO.
Quello, che più opportuno è col tiranno:
la lusinga, l'inganno.
VEREMONDA.
Ah, caro, alla tua vita, all'amor mio
in quest'ombre s'insulta.
AMBLETO.
Ed in quest'ombre avrai soccorso. Fingi.
VEREMONDA.
Meco in breve il lascivo
favellerà di amori.
AMBLETO.
E tu pur amorosa a lui rispondi.
VEREMONDA.
Chiederà i dolci sguardi.
AMBLETO.
E tu cortese
l'ire n'esiglia, e gli componi al vezzo.
VEREMONDA.
Stenderà l'empia man …
AMBLETO.
La tua l'incontri.
VEREMONDA.
Guiderammi a gli altari …
AMBLETO.
Ove si esiga
la marital non osservabil fede.
VEREMONDA.
Che più! che più? Vuoi, ch'ei mi tragga, oh Dei!
Al talamo abborrito, e ch'io vel segua?
AMBLETO.
Si, principessa; e questo
questo il termine sia dei suoi contenti.
VEREMONDA.
Ambleto, e tu vaneggi, o tu mi tenti.
AMBLETO.
Io vaneggiar, quanto son teco, e solo?
Il mio consiglio …
VEREMONDA.
Intendo.
Tel detta una viltà. Perder la vita
temi più che il tuo amore,
e spergiura mi vuoi, perché sei vile.
AMBLETO.
Io vil ti vo‘ spergiura? Amo me stesso
io più di Veremonda?
Io, che se mille vite avessi in seno,
mille a te ne darei?
Ne temi ancora? I tuoi sospetti ingiusti
sul mio sangue cancelli. Addio. Già vado
tutto amor, tutto ardire al fier regnante.
Più non fingo delirj.
Suo rival, suo nimico a lui mi svelo,
e una morte gli chiedo,
non so se disperato o generoso,
che sia insieme mia gloria, e tuo riposo.
VEREMONDA.
Ferma, e perdono, o caro,
a gelosa onestà. Pronta gia sveno
al tuo voler gli affetti.
AMBLETO.
In tua difesa
mi avrai nel maggior uopo, e Valdemaro
gran parte avrà nell'opra.
VEREMONDA.
Valdemaro, che infido …
AMBLETO.
I dubbi accheta.
Per lui prese avria il campo
l'armi in nostro favor; ma il Re, che quindi
volgeva allor ver la cittade il passo,
per via il rattenne, e l'obbligò al ritorno.
Fummo sorpresi. Ei traditor ci parve,
ma la nostra sventura era sua pena.
Chiare prove ei poc'anzi
diemmi di fede. Io te n'accerto, e solo
manca l'opra a compir la tua lusinga.
VEREMONDA.
Servasi al tuo destin e amor si finga.
Teneri sguardi,
vezzi bugiardi
già mi preparo a fingere,
anima mia, per te.
Ma in prova dell'affetto
quando userò più frode,
il merito, e la lode
tanto più avrò di fé.
Scena settima
Valdemaro, e Ambleto.
AMBLETO.
Su la tua fede, o Duce,
fingerà Veremonda.
VALDEMARO.
Son già i mezzi disposti. Io senza-pompa
l'usurpator deludo, e ne‘ tuoi cenni
di un legittimo Re seguo la sorte.
AMBLETO.
Si confidi l'arcano anche a Siffrido.
VALDEMARO.
Il consiglier dell'empio?
AMBLETO.
Il suo più fier nimico in lui si asconde
Senza lui questo giorno …
VALDEMARO.
Taci. Ildegarde.
AMBLETO.
Alle follie ritorno.
Scena ottava
Ildegarde, e i suddetti.
ILDEGARDE.
Ambleto, idolo mio.
AMBLETO.
Qual idolo ti sogni?
ILDEGARDE.
In te, che adoro …
AMBLETO.
Taci;
che se di questi sassi alcun ti scolta,
diratti …
ILDEGARDE.
E che?
AMBLETO.
Che più di me sei stolta.
ILDEGARDE.
Tale mi rende amore.
AMBLETO.
Amor conosci?
Ove il vedesti mai?
ILDEGARDE.
A‘ tuoi bei lumi appresso.
AMBLETO.
T'inganni. Eccolo espresso.
Vedi, che di Cupido
porta in fronte per te dardi, e facelle.
VALDEMARO.
Il ciel vuoi ch'io sia vostro, o luci belle.
ILDEGARDE.
Misera mia speranza.
AMBLETO.
La speranza tu sei?
Dagli tosto il tuo core;
che mai non va senza speranza Amore.
Su, porgimi la destra. E tu la prendi.
VALDEMARO.
Ubbidisco.
ILDEGARDE.
Ma …
AMBLETO.
Che?
ILDEGARDE.
Tu non m'intendi.
AMBLETO.
T'intendo sì. Tu sei qual rosa appunto,
che brama il Sol vicino, e poi ritrosa
nelle foglie si chiude:
ma il modesto rossor vincasi; e intanto,
perché sono Imeneo
del laccio marital gli applausi io canto.
Mille amplessi
preparate i più tenaci,
e i vezzi fra di voi sien mille, e mille,
poi con essi
mille, e mille sieno i baci
alle labbra, alle guance, alle pupille.
Scena nona
Ildegarde, Valdemaro.
VALDEMARO.
Poiché il vuole il destin, ti chieggio, o bella,
con la tua destra il core.
ILDEGARDE.
Che mi narri di destra?
Di cor che mi discorri? Un forsennato
serve a te di ragione, a me di legge?
Or via perché non chiedi
anche gli amplessi, e con gli amplessi i baci?
VALDEMARO.
Bramo solo, che il seno …
ILDEGARDE.
Quel sen che tutto ardea per Veremonda?
VALDEMARO.
Ardea; ma poiché tutta
perdei la mia speranza, e che il dovere
vinse i desiri miei, per altro foco,
che per quel de‘ tuoi lumi, egli non arde.
ILDEGARDE.
E in difetto d'altrui s'ama Ildegarde?
Or aspetta, ch'io pure
Perda la mia speranza, e che il dovere
vinca i desiri miei; forse …
VALDEMARO.
Di Ambleto
così rispetti i cenni?
ILDEGARDE.
Quando Ambleto dal soglio,
o in sen di Veremonda
mi comandi ch'io t'ami, allora forse …
VALDEMARO.
Segui.
ILDEGARDE.
Allor ti amerò. Questa è la fede.
VALDEMARO.
L'alma, che altro non brama, altro non chiede.
Scena decima
ILDEGARDE.
Degno ch'io l'ami è il Duce,
e in esso il grado, in esso il nome onoro;
ma indarno ei si consola.
Se Ambleto, perché folle, a lui mi dona,
Ambleto, perché vago, a lui m'invola.
È troppo amabile quel bel sembiante,
che lagrimar, che sospirar mi fa.
Ma il duol maggiore del core amante
è ch'ei nol mira quando sospira,
ed il suo piangere egli non sa.
Vigne consacrate a Bacco.
Scena decimaprima
Valdemaro e Siffrido.
VALDEMARO.
La vendetta più cauta è la più certa.
SIFFRIDO.
Ma talor la tradisce un troppo indugio.
VALDEMARO.
S'affretti. Io nella Reggia ho i miei guerrieri,
e per colpo sì illustre
eglino il cenno, ed io ne attendo il tempo.
SIFFRIDO.
In sì lieto apparato
chi sa? chi sa? Forse perir l'iniquo
farà pria del tuo ferro il mio veleno.
VALDEMARO.
Comunque ei cada, il suo morir ci salva.
SIFFRIDO.
S'egli per me non cade,
odio di questo cor, non sei ben lieto.
VALDEMARO.
Che più? Mora Fengone.
A DUE.
E regni Ambleto.
Scena decimaprima
Gerilda e i suddetti.
VALDEMARO.
Io de‘ miei torti e testimonio, e pompa?
Regina.
GERILDA.
Oh Dio chi regna
vuoi ch'io sia sol Gerilda.
VALDEMARO.
Ma il valor di più destre
vuol che tu sia Regina, e vendicata.
GERILDA.
Come? Quando? che fia?
VALDEMARO.
In quest'ombre vedrai …
SIFFRIDO.
Guardati, o Duce,
di far noti a Gerilda i tesi inganni.
Al Re più che nimica, ella è consorte,
e due volte, a me infida, il tolse a morte.
VALDEMARO.
Che sento! Hai cor che possa
senza sdegno cader da un regio trono?
GERILDA.
(Fingerò. Forse il merto
di svelar la congiura,
mi renderà scretto, e marito). Amici,
plaudo al vostr'odio, e il mio v'aggiungo. Dite,
qual n'è il pensier? Chi n'è il ministro? e quando?
SIFFRIDO.
Invan non le dar fede.
GERILDA.
Perfidi il tacer vostro
senza pena non fia. So i congiurati,
se non la trama. Andrò …
VALDEMARO.
Vanne. Ma teco
venga il ripudio tuo, venga il tuo danno.
Va. Racconta al tiranno,
che Valdemaro è suo nimico. Digli,
che le rovine sue tenta Siffrido.
E se l'autore ei chiede
di questo, che non sai, grave segreto,
eccone il nome, Odilo, e trema: Ambleto.
Va, se puoi, tradisci un figlio,
perché viva un reo consorte.
Ed il cieco tuo consiglio,
che sin or fu il suo periglio,
sia pur anco la sua morte.
Scena decimaseconda
Gerilda, e Siffrido, poi Fengone, e Veremonda.
O infedele, o spietata
mi duole il mio destino. Ambo delitti,
che col pianto l'orror chiaman sul ciglio.
SIFFRIDO.
L'uno ti è traditor, l'altro ti è figlio.
E qui col traditore è il tradimento.
FENGONE.
Pur men fiera ti veggio.
A Veremonda.
VEREMONDA.
(Oh che tormento).
FENGONE.
Parla. Il dono di un regno
più cortese ti chiede.
SIFFRIDO.
Or vanta il tuo dovere, e la tua fede.
A Gerilda.
VEREMONDA.
È dono sì; ma di Gerilda il duolo
fa ch'ei sembri mia colpa e mia rapina.
FENGONE.
In te la sua Regina
soffra in pace costei.
GERILDA.
E l'onte aggiungi, a sconoscente i danni!
FENGONE.
Del mio gioir presente
per trionfo ti vo‘, non per accusa.
Ma, bei lucidi rai, meno severi
A Veremonda.
a mirar le mie fiamme io vi vorrei.
GERILDA.
(Così dicea l'ingrato un giorno a‘ miei).
A Gerilda.
VEREMONDA.
Mi ricordo Gerilda,
che troppo è fral della tua destra il laccio.
FENGONE.
No, no: la sua fierezza;
ma più la tua beltà da lei mi scioglie.
SIFFRIDO.
(Udisti, udisti? Ei non ti vuol più moglie).
A Gerilda.
FENGONE.
Or vieni, e qui ti assidi.
A Veremonda.
VEREMONDA.
(Ambleto a che mi astringi?)
FENGONE.
Qui co‘ più dolci umori
si temprino gli ardori …
Scena decimaterza
Ambleto da Bacco, e i suddetti.
AMBLETO.
Oh che fiamme! Oh che foco! Un venticello
de‘ più freschi, e soavi
qui tosto venga. Io già lo prendo, e tutto
lo spargo a voi d'intorno.
VEREMONDA.
(Oh mia cara speranza!)
AMBLETO.
Sediam; ma dimmi: adesso è notte, o giorno?
FENGONE.
Non vedi arder le stelle?
AMBLETO.
Ah sì: le veggio. Oh son pur chiare, e belle!
Ma non son stelle, no.
GERILDA.
Che dunque sono?
AMBLETO.
Infocati sospiri,
che già son giunti ove hanno i Numi ‚l trono.
VEREMONDA.
(Io ne intendo il mistero).
AMBLETO.
Orsù: questo è il momento,
che anch'io trionferò. Bacco vedete,
che renderà soggette al carro eccelso
le tigri più crudeli.
FENGONE.
(Attento osservo).
AMBLETO.
Su: lodate col canto i miei trionfi:
e propizie e sincere
risponderan con l'armonie le sfere.
CORO.
Qui di Bacco nella Reggia
si festeggia il Dio di Amore.
AMBLETO.
No, no. Questa non è
canzon degna di me. Udite, udite.
Qui di Astrea vicino al soglio
sorgerà lieto l'onore:
e sarà temuto scoglio
per l'orgoglio il mio valore.
CORO.
Qui di Bacco, ec.
AMBLETO.
Festeggi dunque Amore. Io delle Selve
nume, e custode un tempo, a voi ne trassi
alcun de‘ miei seguaci. Eccoli. Amico,
alla danza, alla danza
Segue il ballo.
FENGONE.
Col pregiato liquor bramo, Siffrido,
del genio mio felicitar la sorte.
SIFFRIDO.
(E tu berrai la morte).
Si parte.
VEREMONDA.
Sia pur felice il tuo primiero affetto.
FENGONE.
Son giudice a costei, non più suo amante.
GERILDA.
(Cangiamento tiranno).
AMBLETO.
Chi credi più assetato
A Siffrido, che torna, e gli leva la coppa dalle mani.
Tantalo o Radamanto? Io berrò pria.
SIFFRIDO.
(Sorte nimica). Usurpi
al Re si temerario i primi sorsi?
AMBLETO.
Hai ragione, hai ragione.
Alla salute mia beva Giunone.
Presenta la coppa a Gerilda.
FENGONE.
Lascia, o Siffrido, in libertade il folle.
VEREMONDA.
(Io temo, e spero).
AMBLETO.
Bevi
A Gerilda.
e rallegrati il cor. Tosto ritorno
Si parte.
SIFFRIDO.
(In periglio Gerilda! Ah, che far deggio?)
GERILDA.
Non festeggia di un empio
Gerilda i tradimenti;
e si vil non son io, benché negletta.
Getta la coppa.
SIFFRIDO.
(Si perdé nel velen la mia vendetta).
Si parte.
AMBLETO.
(M'arrida il ciel). Con tanto foco intorno
Tornando con coppa in mano.
ha una gran sete il sol. Prendi. Ristora
le tue labbra vezzose.
Su prendi. (A lui lo porgi, e solo ei beva).
A Veremonda.
VEREMONDA.
A te, Signor si dee …
La porge a Fengone.
FENGONE.
Sì, Veremonda,
sia lieto il viver nostro;
ed a‘ voti del cor risponda amore.
Beve.
VEREMONDA.
(Risponda pur lo sdegno).
GERILDA.
(Più soffrir non poss'io). Vedi, a‘ tuoi giorni …
A Fengone.
(Ma taci incauto zelo. Ambleto è figlio).
AMBLETO.
Godeste i freschi fiati
de‘ Zeffiretti amici. Or non più indugi:
gite al riposo, sì. Gite al riposo.
FENGONE.
(Cor, che non è geloso, al certo è stolto).
Porgi, o bella, la destra.
VEREMONDA.
La destra? (Oh Dio!)
AMBLETO.
La destra, sì che tardi?
Vorrai che vada solo Amor ch'è cieco?
Tosto potria cader. Non più. Va seco.
(Non vuole altro cimento una pazzia,
che cede un sì gran ben). Cor mio, che pensi?
Alle piume mi chiama il grave sonno.
VEREMONDA.
Vicina ho la vergogna, ed il periglio.
Verso Ambleto.
AMBLETO.
Va. Non temer. Mostra più lieto il ciglio.
FENGONE.
Sì, sì consolami,
né più tardar:
e affretta il giubilo
del mio piacer.
Sul trono amabile
vieni a regnar:
nel regio talamo
vieni a goder.
VEREMONDA.
Verrò: già l'anima
desia di amar:
e amor sollecita
il mio dover.
(Parto; ma timida
non so sperar:
parto ma nobile
non vo‘ temer).
Scena decimaquarta
Gerilda e Ambleto.
GERILDA.
Il vidi, il vidi pur. Passa con l'empio
Veremonda al mio letto. E il soffro? e il soffri
nella madre oltraggiata, e nell'amata?
AMBLETO.
Vada pure a‘ piaceri il fier regnante.
GERILDA.
Ah, vile.
AMBLETO.
Orsù: ti accheta.
Qui principiò la mia vendetta, o madre.
GERILDA.
Come?
AMBLETO.
Nel fatal vetro
il tiranno bevé …
GERILDA.
La morte forse?
AMBLETO.
No: che una morte al perfido si deve,
che abbia tutto il dolore, e tutto il senso.
Bevé in succhi possenti
un invincibil sonno. Alto letargo
lo premerà, prima ch'ei goda; e dove
sognava amplessi, incontrerà ritorte:
che là di Valdemaro
stan gli armati in agguato.
GERILDA.
Ma ti sovvenga poi ch'io son consorte.
AMBLETO.
Tal sii; ma di Orvendillo.
Ad un nome sì sacro
già Fengon rinunziò. Nel comun rischio
sii più madre, che moglie. In trono assisa
piacciati ‚l figlio. Piacciati punito
il fellon parricida; e il tuo si aggiunga
al pubblico desio.
GERILDA.
Sì: vivi, e regna.
Giusto è il furore, e la vendetta è degna.
AMBLETO.
Sul mio crine amore, e sdegno
mi preparo a coronar.
Negli amplessi del mio bene,
e col sangue dell'indegno
vo‘ godere e vo‘ regnar.
Scena decimaquinta
GERILDA.
Oh di pietà importuna,
oh d'ingiusto dover miseri avanzi!
da me partite. Un infedel n'è indegno.
Sprezzo rendasi a sprezzo, e sdegno a sdegno.
Beltà così dee far:
l'ingrato non curar,
e un'anima infedel soffrir in pace,
amando chi la offende
sol per parer fedel,
più vil se stessa rende e lui più audace.
Anfiteatro reale.
Scena decimasesta
Fengone incatenato in atto di svegliarsi.
Orribili fantasmi,
spaventi dell'idea, furie dell'alma,
lasciatemi, fuggite,
e dov'è Veremonda, error si sgombri.
Veremonda, ove sei? Sogno? Ad un sasso
siede Fengon? Ferrea catena il preme?
Ov'è lo scettro? Ove il diadema? il manto?
Si leva.
Chi me qui trasse? E questa,
questa è la Reggia alle mie gioie eletta?
Veremonda, Siffrido,
servi, custodi … oh Dei! Non vi è chi franga
i duri ceppi, e il mio destin compianga?
Stelle, Dei, vassalli, amici,
terra, ciel … tutti ho nimici,
ho nimico anche il mio cor.
Cielo, terra,
fate pur, fatemi guerra:
voi non siete il mio terror.
Il mio cor sol mi spaventa,
e diventa mio dolor.
Scena decimasettima
Valdemaro, poi Ildegarde, poi Gerilda, poi Veremonda, e Fengone.
FENGONE.
Deh, Valdemaro, il tuo valor mi tolga
alle miserie mie.
VALDEMARO.
Quel valor, cui negasti empio, e lascivo,
Veremonda in mercede?
A chi non è mio Re, nego la fede.
FENGONE.
A te, bella Ildegarde,
chieggio soccorso. Il nostro amor ten prega.
ILDEGARDE.
Infedele, or mi preghi?
Resta: che del tuo amore,
perché fu passegger, scordossi il core.
FENGONE.
Gerilda, mia Regina, amata sposa.
GERILDA.
Nomi, che mi togliesti ingrato, e cieco.
A me in fronte, tu il sai, più non s'inchina
il titolo di sposa, e di Regina.
FENGONE.
Almen tu Veremonda,
toglimi alle catene.
Ten prego per la tua virtù pudica.
VEREMONDA.
Tardi, fellon, la mia virtù conosci.
Ingiusto l'offendesti: e invan presumi
reo di più colpe al fio sottrarti.
FENGONE.
Oh numi!
Scena ultima
Ambleto con seguito, e poi Siffrido, e i suddetti.
AMBLETO.
Non profanare il cielo
con le tue voci, o scellerato.
FENGONE.
Ambleto …
AMBLETO.
Aggiungi, e tuo Monarca, e tuo tormento.
FENGONE.
Pietà.
AMBLETO.
Me la insegnasti?
FENGONE.
È ver …
AMBLETO.
Taci; che un empio
suol confessare i falli
disperato bensì, ma non pentito.
Morrai; ma pria rimira
su la mia fronte il tuo diadema. Leggi
in questo dolce amplesso
delle lascivie tue l'onta, e l'orrore.
VEREMONDA.
Così è felice; allor ch'è giusto amore.
FENGONE.
Né mi uccide il dolor pria che l'acciaro?
GERILDA.
Da te, crudel, la crudeltade imparo.
AMBLETO.
Or traggasi miei fidi,
l'iniquo all'ombre, a‘ ceppi, e là più lenta
senza morir, la morte ei soffra, e senta.
SIFFRIDO.
Signor, mi si conceda,
ch'io il custodisca. Vieni.
Tu lacci, tu prigion soffrir non dei.
Si parte.
FENGONE.
Son anche in mia difesa amici, e Dei.
Si parte.
VEREMONDA.
Ed ancor spera l'empio?
GERILDA.
E della sua speranza è reo Siffrido.
VALDEMARO.
Seguasi tosto.
AMBLETO.
Andiam, e si divida
fra il traditore, e fra il crudel la morte.
SIFFRIDO.
Questo acciar, che forte
Torna con spada nuda.
fe‘ la vostra vendetta, e più la mia,
a voi dirà, se traditor io sia.
AMBLETO.
Come?
SIFFRIDO.
Dovea cader l'iniquo mostro;
ma per me solo. Oggi ‚l tentai, ma invano,
con ferro, con rovina, e con veleno.
Qui ‚l tolsi a‘ vostri colpi;
ma il tolsi, eccone il sangue,
per gloria del mio braccio.
AMBLETO.
Traditor generoso, al sen t'abbraccio.
VEREMONDA.
(Alma, non più spaventi).
AMBLETO.
Io Veremonda,
sposo, e Re godo teco: e Valdemaro
sposo pur goda ad Ildegarde in seno.
VALDEMARO.
Ambleto è Re. Di Veremonda è sposo.
ILDEGARDE.
Intendo. Or sia il suo cenno il tuo riposo.
AMBLETO.
Tu regnerai pur meco, o genitrice.
GERILDA.
Nel tuo, nel comun bene io son felice.
VEREMONDA.
Torna già quel seren,
che quest'alma cercò.
AMBLETO.
Gioirò nel piacer,
che più pena non ha.
GERILDA.
L'empietà del crudel
più temere non so.
SIFFRIDO.
Pur godrò col pensier
della mia fedeltà.
VALDEMARO.
La beltà stringo al sen,
che già il sen m'infiammò.
ILDEGARDE.
Io vivrò nel tuo cor,
che mio core si fa.
Il fine dell‘ »Ambleto.«