Claudio Monteverdi
Il ritorno d’Ulisse in Patria
Libretto von Giacomo Badoaro
Uraufführung: Frühjahr 1640, Teatro San Cassiano, Venedig
Personaggi
L’umana Fragilità (contralto),
Il Tempo (basso),
La Fortuna (soprano),
Amore (soprano), Prologo
Penelope (mezzosoprano)
Ericlea (mezzosoprano)
Melanto (soprano)
Eurimaco (tenore)
Nettuno (basso)
Giove (tenore)
Ulisse (baritono)
Minerva (soprano)
Eumete (tenore)
Iro (tenore)
Telemaco (tenore)
Antinoo (basso)
Anfimono (tenore)
Pisandro (tenore)
Giunone (soprano)
Coro: Nereidi, Sirene, Feaci, Naiadi, eccetera
Prologo
L’UMANA FRAGILITÀ.
Mortal cosa son io,
fattura umana,
tutto, tutto mi turba
un soffio sol m’abbatte,
il tempo, che mi crea,
quel, quel mi combatte.
IL TEMPO.
Salvo è niente
dal mio dente,
ei rode, ei gode,
non fuggite o mortali,
che se ben zoppo, ho l’ali.
L’UMANA FRAGILITÀ.
Mortal cosa son io,
fattura umana senza periglio
in van ricerco loco
che frale vita
è di fortuna, un giuoco.
LA FORTUNA.
Mia vita son voglie,
le gioje, le doglie;
son cieca, son sorda
non vedo, non odo,
ricchezze, grandezze
dispenso a mio modo.
L’UMANA FRAGILITÀ.
Mortal cosa son io,
fattura umana,
al Tiranno d’Amor serva sen giace
la mia fiorita età verde, e fugace.
AMORE.
Dio de’Dei feritor
mi dice il mondo Amor,
cieco saettator,
alato, ignudo,
contro il mio stral
non val difesa o scudo.
L’UMANA FRAGILITÀ.
Misera, son ben io,
fattura umana
creder a ciechi e zoppi
è cosa vana.
IL TEMPO.
Per me fragile
FORTUNA.
Per me misero
AMOR.
Per me torbido
TUTTI.
quest‘ Uom sarà.
IL TEMPO.
Il Tempo ch’affretta,
FORTUNA.
Fortuna che alletta,
AMOR.
Amor che saetta
TUTTI.
pietate non ha.
Atto primo
Scena I
Reggia
PENELOPE.
Di misera Regina
non terminati mai dolenti affanni;
L’aspettato non giunge,
e pur fugonno gl’anni.
La serie del penare è lunga, ahi troppo:
a chi vive in angoscie il tempo è zoppo;
fallacissima speme,
speranze non più verdi ma canute,
all’invecchiato male
non promettete più pace o salute.
Scorsero quattro lustri
dal memorabil giorno,
in cui, con sue rapine,
il superbo Trojano
chiamò l’alta sua Patria alle ruine;
A ragion arse Troja
poiché, l’Amore impuro
ch’è un delitto di foco,
si purga con le fiamme.
Ma ben contro ragione
per l’altrui fallo, condannata innocente,
dell’altrui colpe
io sono l’afflitta penitente!
Ulisse accorto, e saggio,
tu che punir gl’adulteri ti vanti, aguzzi
l’armi, e susciti le fiamme
per vendicar gli errori
d’una profuga Greca; e intanto lasci
la tua casta consorte fra i nemici rivali
in dubbio dell’onore, in forse a morte.
Ogni partenza attende desiato ritorno,
tu sol del tuo tornar perdesti il giorno.
ERICLEA.
Infelice Ericlea
nutrice sconsolata,
compiangi il duol de la Regina amata.
PENELOPE.
Non è dunque per me varia la sorte,
cangiò forse fortuna
la volubile ruota instabil seggio,
e la sua pronta vela,
ch’ogn’uman caso porta fra l’incostanza a volo,
sol per me non raccoglie un fiato solo.
Cangia per altri pur l’aspetto
il Cielo, le Stelle erranti e fisse;
torna, torna, deh torna Ulisse!
Deh torna Ulisse, Penelope t’aspetta,
l’innocente sospira,
piange l’offesa,
e, contro il tenace offensor
né pur s’adira all’anima affannata
porto le sue discolpe,
acciò non resti di crudeltà macchiato
ma, Fabro de’miei danni, incolpo, il Fato.
Così, per tua difesa,
col Destino, col Cielo
fomento guerra, e stabilisco risse.
Torna, torna, deh torna Ulisse!
ERICLEA.
Partir senza ritorno
non può Stella influir,
non è partir,
ahi che non è partir.
PENELOPE.
Torna il tranquillo al Mare,
torna il Zeffiro, al prato
l’Aurora mentre al Sol fa dolce invito
è un ritorno del dì che è pria partito.
Tornan le brine in terra,
tornano al centro i sassi,
e, con lubrici passi,
torna all’Oceano il rivo.
L’uomo quaggiù ch’è vivo
lunge da suoi principii
porta un’Alma celeste, e un corpo frale;
tosto more il mortale,
e torna l’Alma il Cielo,
e torna il corpo in polve,
doppo breve soggiorno.
Tu sol del tuo tornar,
perdesti il giorno.
Torna che, mentre porti empie dimore
al mio fiero dolore,
veggio del morir mio l’ore prefisse:
torna, torna, deh torna Ulisse!
MELANTO.
Duri, e penosi
son gli amorosi
fieri desir,
ma alfin son cari,
son cari se prima amari,
gli aspri martir,
che s’arde un Core d’allegrezza è’l foco.
Ne mai perde in Amor chi compie il giuoco.
EURIMACO.
Bella, bella Melanto mia
mia graziosa Melanto,
il tuo canto è un incanto,
il tuo volto è magia,
bella, bella Melanto mia,
e tutto laccio in te ciò ch’altri ammaga,
ciò che laccio non è, fa tutto piaga.
MELANTO.
Vezzoso garruletto,
o come ben tu sai
ingemmar le bellezze,
indorar a tuo prò d’un volto i rai,
lieto vezzeggia pur, con glorie mie
le tue dolci bugie.
EURIMACO.
Bugia sarebbe s’io
lodando non t’amassi,
ch’il negar
d’adorar
confessata Deità
è bugia d’empietà.
MELANTO.
Dei nostri Amor concordi
EURIMACO.
sia pur la fiamma accesa,
che amato non amando arreca offesa,
ch’amato il non amar diventa offesa.
EURIMACO.
Ne con ragion s’offende
colui, che per offese amor ti rende.
MELANTO.
S’io non t’amo Cor mio,
che sia di gelo
l’Alma ch’o in seno a tuoi begl’occhi avante.
EURIMACO.
S’in adorati il Cor non ho costante
non mi sia stanza il mondo o tetto il Cielo.
MELANTO.
Dolce mia vita, mia vita sei.
EURIMACO.
Lieto mio bene, mio ben sarai
MELANTO.
Nodo sì bel
EURIMACO.
non si disciolga mai.
MELANTO.
Come il desio m’invoglia,
Eurimaco, mia vita,
senza fren, senza morso
dar nel tuo sen alle mie gioie il corso.
EURIMACO.
Come volentieri
cangerei questa Reggia in un deserto,
ove occhio curioso
a veder non giungesse i nostri errori,
ch’ad un focoso petto
il rispetto è dispetto.
MELANTO.
Se Penelope bella
non si piege alle voglie
de’rivali amatori,
mal sicuri saranno
i nostri occulti amori.
EURIMACO.
Tu dunque t’affatica
suscita in lei le fiamme.
MELANTO.
Ritentero quell’alma
pertinace, ostinata,
ritoccherò quel core
ch’indiamante l’onore.
EURIMACO.
Va, va Melanto e t’adopra
che d’ammollir parlando
femminil contumacia
non è piccola l’opra.
MELANTO.
Dolce mia vita, mia vita sei,
EURIMACO.
Lieto mio bene, mio ben sarai
MELANTO.
Nodo sì bel
EURIMACO.
non si disciolga mai.
Scena 2
NEREIDI.
Fermino i Sibili
i venti e fremiti
Sibili il Mar.
SIRENE.
Aura tranquilati
bell’onda calmati
l’addormentato deh non svegliar.
NEREIDI.
Tacete Sirene se tace l’irato.
SIRENE.
Nereidi tacete se tace Nettuno.
NEREIDI.
Tacete venti silenzio Mar.
SIRENE.
Ulisse dorme non lo destar.
NETTUNO.
Superbo è l’uom, et è del suo peccato
cagion. Benchè lontano, il Ciel cortese,
facile hai troppo in perdonar l’offese,
fa guerra col Destin, pugna col Fato.
Tutt’osa, tutto ardisce, l’umana libertade
indomita si rende,
e l’arbitrio dell’uom, col Ciel contende.
Ma se Giove benigno
i trascorsi dell’uom troppo perdona,
tenga egli a voglia sua nella gran destra
il fulmine ozioso;
tengalo invedicato;
ma non soffra Nettuno
col proprio disonor, l’uman peccato.
GIOVE.
Gran Dio de‘ salsi flutti,
che mormori e vanegi
contro l’alte Bontà del Dio sovrano?
Me stabilì per Giove
la mente mie pietosa,
più ch’armata la mano.
Questo fulmine atterra,
la pietà persuade,
fa adorar le pietade,
ma non adora più, chi cade a terra.
Ma qual giusto desio d’aspra vendetta
furioso ti move
ad accusar l’alta bontà di Giove?
NETTUNO.
Hanno i Feaci ardite
contro l’alto voler del mio decreto.
Han Ulisse condotto
in Itaca sua Patria onde rimane,
dall’uman ardimento,
dell’offesa Deitade
ingannato l’intento.
Vergogna, e non pietade
commanda il perdonar fatti sì rei.
Così di nome solo
son Divini gli Dei?
GIOVE.
Non fien discare al Ciel le tue vendette,
che commune ragion ci tien’uniti
puoi da te stesso castigar gl’arditi.
NETTUNO.
Hor già che non dissente,
il tuo divin volere
darò castigo al temerario orgoglio;
la nave loro andante
farò immobile scoglio.
GIOVE.
Facciasi il tuo comando,
veggansi l’alte prove
abbian l’onde il suo Giove,
e chi andando peccò pera restando.
FEACI.
In questo basso mondo
l’uomo può quanto vuol.
Tutto fa
che’l ciel del nostro oprar pensier non ha.
NETTUNO.
Ricche d’un nuovo scoglio
sien quest’onde fugaci.
Imparino i Feaci in questo giorno,
che l’umano viaggio,
quand’ha contrario il ciel non ha ritorno.
ULISSE.
Dormo ancora, o son desto?
Che contrade rimiro?
qual aria vi respiro
e che terren calpesto?
Chi fece in me, chi fece
il sempre dolce e lusinghevol sonno
ministro de’tormenti?
Chi cangiò il mio riposo in ria sventura?
Qual deità de’dormienti ha cura?
Oh sonno, oh mortal sonno!
fratello della morte altri ti chiama,
solingo, e trasportato
deluso et ingannato,
ti conosco ben io. Padre d’errori.
Pur, degli errori miei son io la colpa.
Che, se l’ombra è del sonno
sorella, oppur compagna,
chi si confida all’ombra,
perduto alfin contro ragion si lagna.
Oh Dei sempre sdegnati,
Numi non mai placati
contro Ulisse, che dorme, anco severi,
vostri divini imperi
contro l’uman voler sien fermi e forti,
ma non tolgano, ohimè, la pace ai morti!
Feaci ingannatori,
voi pur mi prometteste
di ricondurmi salvo
in Itaca mia Patria
con le richezze mie, co’miei tesori,
Feaci mancatori. Or non sò come
ingrati, mi lasciaste
in questa riva aperta,
su spiaggia erma e deserta,
misero, abbandanato,
e vi porta fastosi
e per l’aure, e per l’onde
così enorme peccato!
Se puniti non son sì gravi errori,
lascia Giove, deh lascia
de‘ fulmini la cura,
che la legge del Caso è più sicura.
MINERVA.
Cara e lieta Gioventù,
che disprezza empio desir,
non dà a lei noia, o martir
ciò che viene, e ciò che fù.
ULISSE.
Sempre l’uman bisogno il Ciel soccorre.
Quel Giovinetto tenero negl’anni,
mal pratico d’inganni
forse che’l mio pensier farà contento.
MINERVA.
Giovinezza è un bel tesor,
Che fa ricco in gioia un sen,
per lei zoppo il tempo vien,
per lei vola alato Amor.
ULISSE.
Vezzoso Pastorello,
deh, sovvieni un perdutto
di consiglio, e d’aiuto, e dimmi pria
di questa spiaggia, e questo porto il nome.
MINERVA.
Itaca è questa in sen di questo mare
porto famoso, e spiaggia
felice, avventurata:
faccia gioconda, e grata
a sì bel nome fai?
Ma tu come venisti, e dove vai?
ULISSE.
Io Greco sono et or di Creta io vengo
ma dal cruccioso mar, dal vento infido
fummo a forza cacciati in questo lido.
Ond’io rimasi
con le mie spoglie in su l’arena ignuda
isconosciuto, e solo
e’l sonno che partì lasciommi il duolo.
MINERVA.
Ben lungamente addormentato fosti,
ch’ancor ombre racconti, e sogni narri;
è ben accorto Ulisse,
ma più saggia è Minerva.
Tu dunque, Ulisse, i miei precetti osserva.
ULISSE.
Grazie ti rende, o protettrice Dea.
Ben so che per tuo amore
furon senza periglio i miei pensieri.
Or, consolato seguo
i tuoi saggi consigli.
MINERVA.
Incognito sarai,
non conosciuto andrai
sin ché tu vegga
dei Proci tuoi rivali
la sfacciata baldanza.
ULISSE.
Oh fortunato Ulisse!
MINERVA.
Di Penelope casta l’immutabil costanza.
ULISSE.
Oh fortunato Ulisse!
MINERVA.
Or t’adacqua la fronte
nella vicina fonte,
che anderai sconosciuto
in sembiante canuto.
ULISSE.
Ad obedirti vado, indi ritorno.
MINERVA.
Io vidi per vendetta,
incenerirsi Troia; ora mi resta,
Ulisse ricondur in patria, in Regno,
d’un’oltraggiata Dea, questo è lo sdegno.
Quinci imparate voi, stolti mortali,
al litigio del ciel non poner bocca,
il giudizio del ciel a voi non tocca,
che son di terra i vostri tribunali.
ULISSE.
Eccomi, saggia Dea.
Questi peli che guardi,
sono di mia vecchiaia testimoni bugiardi.
MINERVA.
Or poniamo in sicuro
queste tue spoglie amate
entro quel antro oscuro
delle Naiadi Ninfe al Ciel sacrate.
MINERVA.
Ninfe serbate le gemme e gli ori,
ULISSE.
spoglie, e tesori,
tutto serbate,
Ninfe sacrate.
NAIADI.
Bella Diva eccoci pronte
al tuo cenno, al tuo voler
e quest’antro e quella fonte
spruzza, e s’apre tuo voler.
Itaca lieta si mostri sì
al bel ristoro d’Ulisse un di.
MINERVA.
Tu d’Aretusa al fonte in tanto vanne,
ove il Pastor Eumete,
tuo fido antico servo,
custodisce la gregge; ivi m’attendi
in sin che pria di Sparta io ti conduca
Telemaco tuo figlio,
poi d’eseguir t’appresta il mio consiglio.
ULISSE.
Oh fortunato Ulisse,
fuggi dal tuo dolor,
l’antico error:
Lascia il pianto;
dolce canto
dal tuo cor lieto disserra.
Non si disperi più mortale in terra.
Oh fortunato Ulisse!
Cara vicenda si può soffrir,
or diletto, or martir
or pace, or guerra,
non si disperi più mortale in terra.
Scena 3
Reggia
PENELOPE.
Donate un giorno o Dei
contento a’desir miei.
MELANTO.
Cara amata Regina,
avveduta, e prudente,
per tuo sol danno sei,
men saggia io ti vorrei,
l’ossa del tuo marito
estinto, incenerito,
del tuo dolor non son poco né molto;
d’una memoria grata
s’appagano i defunti,
stanno i vivi coi vivi
in un congiunti.
Langue sotto i rigori
de‘ tuoi sciapiti Amori
la più fiorita età,
ma vedeva beltà di te si duole
che dentro ai lunghi pianti
mostri sempre in Acquario un sì bel sole.
Ama dunque che d’Amore
dolce amica è la beltà
dal piacer il tuo dolore
saettato caderà.
PENELOPE.
Amor è un idol vano,
Amor è un vagabondo nume,
Amor all’incostanze sue non mancan piume,
del suo dolce sereno
è misura il baleno,
un giorno solo
cangia il piacer in duolo
sono i casi amorosi
de’Tesei, e de’Giasoni, ohime, son pieni
d’incostanza, e rigore,
pena, e morte, e dolore;
dell’amoroso Ciel, splendori fissi
san cangiarsi in Giasoni anco gli Ulissi.
MELANTO.
Perché Aquilone infido turbi una volta il mar
distaccarsi dal lido
animoso nocchier non del lasciar;
sempre riguarda il Ciel, trova una stella
ha calma ogni procella.
Ama dunque che d’amore
dolce amica è la beltà,
dal piacer il tuo dolore
saettato caderà.
PENELOPE.
Non dee di nuovo amar
chi misera penò
torna stolta a penar
chi prima errò.
Scena 4
Boscareccia
EUMETE.
Come, oh come mal si salva un Regio amante
da sventure, e da mali;
meglio i scettri regali
che i dardi de‘ Pastor imperla il pianto.
Seta vestono ed ori i travagli maggiori
è vita più sicura della ricca et illustre
la povera et oscura.
Colli, campagne, e boschi,
se stato uman felicità contiene,
in voi s’annida il sospirato bene; herbosi prati
in voi nacse il fior del diletto,
frutto di libertade in voi si coglie,
son delizie dell’uom le vostre foglie.
IRO.
Pastor d’armenti può
prati, e boschi lodar,
avvezzo nelle mandre a conversar:
Quest’erbe che tu nomini
sono cibo di be‘ ….
Pastor, di bestie,
e non degli uomini.
EUMETE.
Iro, gran mangiatore
Iro, divoratore,
Iro, loquace,
mia pace non perturbar.
Corri, corri a mangiar.
D’Ulisse generoso
fù nobile intrapresa
lo spopolar, l’incenerir cittadi;
ma forse il Cielo, irato
nella caduta del Trojano Regno,
volle la vita sua per vittima al suo sdegno.
ULISSE.
Se del nomato Ulisse
tu vegga in questo giorno
desiato il ritorno,
accogli questo vecchio
povero, ch’ha perduto
ogni mortal aiuto.
Nella cadente età, nell’aspra sorte,
gli sia la tua pietà, scorta alla morte.
EUMETE.
Ospite mio sarai,
cortese albergo avrai:
Sono i Mendici
favoriti del Ciel,
di Giove amici.
ULISSE.
Ulisse, Ulisse, è vivo.
La Patria lo vedrà,
Penelope l’avrà,
credilo a me, Pastore.
EUMETE.
Come lieto t’accoglio
mendica Deità.
Il mio lungo cordoglio
da te vinto cadrà.
Seguimi amico pur;
riposo avrai sicur.
Scena 5
TELEMACO.
Lieto cammino,
dolce viaggio.
Passa il carro divino
come che fosse un raggio.
MINERVA.
Eccoti giunto alle paterne ville.
Telemaco prudente,
non ti scordar giammai de’miei consigli,
che, se dal buon sentier travia la mente
incontrerai perigli.
EUMETE.
Oh gran figlio d’Ulisse,
è pur ver che tu torni
a serenar della tua madre i giorni?
Oh gran figlio d’Ulisse
e pur sei giunto al fine
di tua casa cadente
a riparar l’altissime ruine.
Fugga il cordoglio e cessi il pianto.
TELEMACO.
Vostri cortesi auspici a me son grati.
Manchevole piacer però m’alletta
ch’esser paga non puote Alma ch’aspetta.
EUMETE.
Questo che tu qui miri
sovra gli omeri stanchi
portar gran peso d’anni,
e mal involto da ben laceri panni:
Egli m’accerta, che d’Ulisse il ritorno
fia di poco lontan da questo giorno!
TELEMACO.
Vanne tu pur veloce
Vanne Eumete alla reggia.
Vanne e del mio arrivo
fa ch’avvisata sia
la genitrice mia.
Che veggio, ohime, che miro?
Questa terra vorace i vivi inghiotte,
apre bocche, e caverne
d’umano sangue ingorde, e più non soffre
del viator il passo,
ma la carne dell’uom tranghiotte il sasso.
Così dunque Minerva alla Patria mi doni?
Ah, caro padre!
Dunque in modo sì strano
m’avvisa il tuo morire
il ciel di propria mano.
Ma che nuovi portenti, ohime, rimiro?
Fa cambi, fa permute
con la morte la vita?
ULISSE.
Telemaco, convienti
cangiar le maraviglie in allegrezza.
Ulisse, Ulisse io sono,
testimonio è Minerva.
TELEMACO.
O padre sospirato!
ULISSE.
O figlio desiato!
TELEMACO.
Genitor glorioso!
ULISSE.
pegno dolce, amoroso!
TELEMACO.
T’inchino,
ULISSE.
Ti stringo.
TELEMACO.
Oh mio diletto, figliale dolcezza!
ULISSE.
ti stringo, ti stringo paterna tenerezza!
TELEMACO.
a la grimar mi sforza,
ULISSE.
il pianto in me rinforza.
TELEMACO, ULISSE.
Mortal tutto confida,
e tutto spera
che quando’l Ciel protegge,
Natura non ha legge:
L’impossibile ancor
spesso s’avvera.
ULISSE.
Vanne, vanne alla madre, va
porta alla Reggia il piè,
sarò tosto con te,
ma pria canuto il pel ritornerà;
vanne alla madre, va!
Act II
Scena 1
Reggia
ANTINOO.
Sono l’altre Regine
coronate di servi e tu a’amanti.
Tributan questi Regi
al mar di tua bellezza
un mar di pianti.
ANFIMONO, ANTINOO, PISANDRO.
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
PENELOPE.
Non voglio amar, no, no,
ch’amando penerò.
ANFIMONO, ANTINOO, PISANDRO.
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
PENELOPE.
Cari tanto mi sete
quanto più ardete;
ma, non m’appresso
all’amoroso gioco,
che lungi è bel,
più che vicino il foco.
Non voglio amar, no, no,
ch’amando penerò.
PISANDRO.
La pampinosa vite,
se non s’abbraccia al faggio,
l’autun non frutta e non fiorisce il maggio,
e se fiorir non resta,
ogni mano la coglie,
ogni piè la calpesta.
ANFIMONO.
Il bel cedro odoroso
vive; se non s’incalma,
senza frutto spinoso;
ma se s’innesta poi
figliano frutti e fior gli spini suoi.
ANTINOO.
L’edera che verdeggia
ad onta anco del verno
d’un bel smeraldo eterno,
se non s’appoggia perde
fra l’erbose rovine il suo bel verde.
ANFIMONO, ANTINOO, PISANDRO.
Ama dunque, sì, sì,
dunque riama un dì.
PENELOPE.
Non voglio amar, non voglio!
Come sta in dubbio
un ferro se, se, fra due calamite
da due parti diverse egli è chiamato, così
sta in forse il core
nel tripartito amore.
Ma non può amar
chi non sa, chi non può
che piangere e penar.
Mestizia e dolor
son crudeli nemici d’amor.
ANFIMONO.
All’allegrezze dunque, al ballo, al canto
PISANDRO.
rallegriam la Regina.
ANTINOO.
Lieto cor ad amar tosto s’inchina.
CORO.
Dame in amor belle e gentil
amate allor che ride April.
Non giunge al sen gioia o piacer,
se tocca il crin l’éta senil.
Dunque al gioir, liete al goder.
Dame in amor belle e gentil.
Vaga ne’spin la rosa stà,
ma non nel gel bella è beltà,
perde il splendor torbido ciel,
ciglio in rigor non è più bel.
EUMETE.
Apportator d’alte novelle vengo,
è giunto, on gran Regina,
Telemaco, tuo figlio,
e forse non fia vana
la speme ch’io t’arreco: Ulisse, il nostro Rege,
il tuo consorte è vivo,
e speriam non lontano il suo bramato arrivo.
PENELOPE.
Per sì dubbie novelle
o s’addoppia il mio male
o si cangia il tenor delle mie stelle.
ANTINOO.
Compagni, udiste?
il nostro vicin rischio mortale,
vi chiama a grandi e risolute imprese.
Telemaco ritorna
e forse Ulisse
questa Reggia da voi violata e offesa
dal suo Signor aspetta tarda bensì,
ma prossima vendetta.
chi d’oltraggiar fu ardito
neghittoso non resti
in comprir il delitto.
In sin ad ora fu
il peccato dolcezza,
ora il vostro pecar fia sicurezza,
che lo sperar favori
è gran pazzia
da chi s’offese pria.
ANFIMONO.
Han fatto l’ofre nostre
PISANDRO.
inimici d’Ulisse.
L’oltraggiar l’inimico
unqua disdisse.
ANTINOO.
Dunque l’ardir s’accresca,
e pria ch’Ulisse arrivi
Telemaco vicin togliam dai vivi.
ANFIMONO.
Sì, sì, de’grandi amori,
ANTINOO.
sono figli i gran sdegni,
PISANDER.
quel fere i cori
e quest’abbatte i regni.
EURIMACO.
Mirate, ohimè mirate
del gran Giove l’augello,
ne predice rovine,
ne promette flagello.
ANFIMONO.
Crediam al minacciar del ciel irato,
ANTINOO.
che chi non teme il cielo
PISANDER.
raddoppia il suo peccato.
ANTINOO.
Dunque prima che giunga il filial soccorso,
per abbatter quel core
facciam ai doni almen grato ricorso,
perchè ha la punta d’or lo stral d’amore.
EURIMACO.
L’oro sol sia l’amorosa magia.
Ogni cor femminil
se fossè pietà;
tocco dall’or si spetra.
ANFIMONO.
Amor è un ‚armonia,
ANTINOO.
sono canti i sospiri,
PISANDER.
ma non si canta ben se l’or non suona:
non ama chi non dona.
Scena 2
ULISSE.
Penir non può chi tien per scorta il cielo,
chi ha per compagno un Dio.
A grand’imprese, è ver, volto son io.
Ma fa peccato grave
chi, difeso dal ciel
il mondo pave.
MINERVA.
O coraggioso Ulisse,
io faro che proponga
la tua casta consorte giuco
che affè fia gloria e sicurezza
e vittoria e a’Proci morte
allor, che l’arco tuo ti giunge
in mano e strepitoso tuon
fiero t’invita; saetta pur,
che la tua destra ardita
tutti conficcherà gli estinti al piano.
Io starò teco e con celeste lampo
atterrerò l’umanità soggetto:
Cadran vittime tutti alla vendetta,
che i flagelli del ciel non hanno scampo!
ULISSE.
Sempre è cieco il mortale,
ma all’or si dee più cieco
chi’l precetto divin devoto osserva.
Io ti segno, Minerva.
EUMETE.
Io vidi, o pelegrin,
de’Proci amanti l’ardir
infermarsi, l’ardore gelar
negl’occhi tremanti
il cor palpitar.
Il nome sol d’Ulisse
quest’alme ree trafisse.
ULISSE.
Godo anch’io,
né so come rido,
né so perchè.
Tutto gioisco,
ringiovanisco
ben lieto affè.
EUMETE.
Andrem veloci.
Vedrai di quei feroci
fieri i costumi,
i gesti impudenti,
inonesti.
ULISSE.
Non vive eterna
l’arroganza in terra,
la superbia mortal
tosto s’abbatte,
che il fulmine del Ciel gl’Olimpi atterra.
Scena 3
TELEMACO.
Del mio lungo viaggio i torti errori
già vi narrai, Regina. Hora tacer
non posso della veduta Greca,
la bellezza divina.
M’accolse Elena bella;
io mirando stupii.
Io vidi in que’begli occhi
dell’incendio Trojano
le nascenti scintille,
le bambine faville;
e ben prima potea
astrologo amoroso
da quei giri di foco
profetar fiamme e indovinar
ardori da incenerir città
non men che corì.
Si perdoni a quell’alma
il grave fallo.
PENELOPE.
Beltà troppo funesta,
ardor iniquo di rimembranze indegno.
Memoria così trista
disperda pur l’oblio
vaneggia la tua mente,
folleggia il tuo desio.
TELEMACO.
Non per vana follia Elena ti nomai,
ma perchè essendo nella famosa Sparta
circondato improvviso dal volo d’un augel
destro e felice, Elena,
ch’è maestra dell’indovine scienze e degl’auguri
tutta allegra mi disse
ch’era vicino Ulisse.
PENELOPE.
Voglia il ciel che mia vita,
anco sostenti debole, fil di speme,
e, come a picciol seme Natura insegna
ad ingrandirsi in pianta
Così, dentro al mio petto
nasca da picciol seme,
dentro al mio petto,
alto diletto.
Scena 4
ANTINOO.
Sempre villano Eumete. Hai qui condotto
un infesto mendico, un noioso importuno
che, con sue voglie ingorde, non farà
che guastar le menti liete.
EUMETE.
L’ha condotto fortuna alle case d’Ulisse
ove pietà s’aduna.
ANTINOO.
Rimanga ei teco a custodir la gregge
e qui non venga dove civile nobiltà
commanda e regge.
EUMETE.
Civile nobiltà non è crudele.
ANTINOO.
Arrogante plebeo, insegnar opre
eccelse,
a te, vil uom, non tocca,
né dee parlar di re
villana bocca;
e tu, povero indegno,
fuggi da questo regno.
IRO.
Pàrtiti, movi il piè.
Se sei qui, qui per man …
per mangiar
son pria di te.
ULISSE.
Se tanto mi concede l’alta bontà regale,
trarrò il corpaccio tuo
sotto il mio piede, mostruoso animale!
IRO.
E che sì, rimbambito guerriero,
Vecchio importuno, e che sì, che ti strappo
i peli della barba ad uno ad uno.
ANTINOO.
Vediam, Regina, in questa bella coppia
d’una lotta di braccia stravagante duello.
ULISSE.
La gran disfida accetto, cavaliero panciuto.
IRO.
Su dunque! Su, su‘.
Alla ciuffa, alla lotta, su, su!
Son vinto, ohimè!
ANTINOO.
Iro, puoi ben mangiar, ma non lottar.
PENELOPE.
Valoroso mendico, in corte resta
onorato e sicuro.
ANFIMONO.
Generosa Regina, Anfimono a te s’inchina,
e ciò che diede larga e prodiga sorte
dona a te, per te aduna sua novella fortuna,
questa regal corona che di comando è segno,
ti lascia in testimon di ciò che dona.
Dopo il dono del core
non ha dono maggiore.
PENELOPE.
Anima generosa, prodigo cavaliere,
Len sei d’impero degno,
che non merita
men chi dona un regno.
PISANDRO.
Se t’invoglia il desio
d’accettar regni in dono
ben so donar anch’io
et anch’io Rege sono.
Queste pompose spoglie,
questi regali ammanti
confessano superbi
i miei ossequi
ai tuoi canti.
PENELOPE.
Nobil contesa e generosa gara,
ove amator discreto
l’arte del ben amar donando impara.
ANTINOO.
Il mio cor che t’adora
non ti vuol sua Regina;
l’anima che s’inchina
ad adorarti.
Deità vuol chiamarti
e, come Dea,
t’incensa coi sospiri,
fa vittime i desiri
e con quest’ori
t’offre voti ed onori.
PENELOPE.
Non andran senza premio opre cotanto eccelse,
che donna quando dona, se non è prima accesa
allor s’accende.
Or t’affretta Melanto, e quì m’arrecca
l’arco del forte Ulisse e la faretra,
e chi sarà di voi, con l’arco ponderoso
saettator più fiero, avrà d’Ulisse
e la moglie, e l’impero.
TELEMACO.
Ulisse, e dove sei?
Che fai che non ripari le tue perdite
e in un gl’affanni miei?
ANFIMONO.
Lieta, soave gloria,
PISANDRO.
grata e dolce vittoria!
ANTINOO.
Cari pianti degli amanti,
cor fedele, costante sen
cangia il torbido in seren.
PENELOPE.
Ecco l’arco d’Ulisse,
anzi l’arco d’amor
che dee passarmi il cor.
Anfimono, a te lo porgo:
chi fu il primo a donar
sia il primo a saettar.
ANFIMONO.
Il braccio non vi giunge,
il polso non v’arriva;
ceda la vinta forza, col non poter
anche il desio s’ammorza.
PISANDRO.
Com’intrattabile,
com’indomabile
l’arco si fa. Quel petto frigido,
protervo e rigido,
per me sarà.
ANTINOO.
Ceda Marte et Amore
ove impera beltà.
M’accingo in virtu
del tuo bello all’alta prova,
virtu, valor non giova.
Forse forza d’incanto
contende il dolce vanto.
Ah! Ch’egli è vero
ch’ogni cosa fedele
ad Ulisse si rende,
e sin l’arco d’Ulisse,
Ulisse attende.
PENELOPE.
Chi simile ad Ulisse
virtute non possiede,
de’tesori d’Ulisse
è indegno erede.
ULISSE.
Regina, in queste membra tengo un alma sì ardita
ch’alla prova m’invita.
Il giusto non eccedo:
rinunzio il premio
e la fatica io chiedo.
PENELOPE.
Concedasi al mendico
la prova faticosa.
Contesa gloriosa
contro petti virili
un fianco antico
che tra rossori involti
darà’l foco d’amor
vergogna ai volti.
ULISSE.
Questa mia destra umile
s’arma a tuo conto, o Cielo!
Le vittorie apprestate;
o sommi Dei,
s’a voi son cari i sacrifizi miei!
CORO.
Meraviglie, stupori,
prodigi estremi!
ULISSE.
Giove nel suo tuonar
grida vendetta!
Così, l’arco saetta.
Minerva. Alle morti, alle stragi
alle ruine, alle ruine!
IRO.
Oh dolor, oh martir che l’alma attrista;
o mesta rimembranza di dolorosa vista.
Io vidi i Proci estinti, estinti i Proci
I Proci furo uccisi.
Ah, ch’io perdei le delizie del ventre
e della gola.
Chi soccorre al digiun,
chi lo consola
con flebile parola?
I Proci, Iro, perdesti
i Proci, i padri tuoi.
Sgorga pur quanto vuoi
lagrime amare e meste,
che Padre è chi ti ciba
e chi ti veste.
Non troverai, no, no,
non troverai chi goda empir del vasto ventre,
l’affamate caverne,
non troverai, no, no,
chi rida del ghiotto trionfar
della tuo gola.
Chi soccorre il digiun,
chi lo consola?
Infausto giorno
a mie ruine armato:
poco dianzi mi vinse un vecchio ardito;
or m’abbatte la fame, dal cibo abbandonato.
L’ebbi già per nemica,
l’ho distrutta, l’ho vinta;
or troppo fora vederla vincitrice.
Voglio uccider me stesso
e non vo’mai ch’ella porti di me
trionfo e gloria!
Che si toglie al nemico
è gran vittoria.
Coraggioso mio core
vinci il dolore!
E pria ch’alla fame nemica
egli soccomba, vada il mio corpo
a disfamar la tomba.
MELANTO.
E quai nuovi rumori,
e che insolite stragi,
e che tragici amori!
Chi fu l’ardito che osò
con nuova guerra, la pace intorbidar
ch’hai tu negl’occhi?
PENELOPE.
Vedova amata, vedova Regina,
nuove lagrime appresto
in somma, all’infelice
ogni amore è funesto!
MELANTO.
Penelope, Penelope!
PENELOPE.
Dell’occhio la pietate
si risente all’eccesso,
ma concitar il core
a sdegno ed a dolore,
non m’è concesso.
EUMETE.
Forza d’occulto affetto
raddolcisce il tuo petto.
Chi, con un arco solo,
isconosciuto diede
a cento morti il duolo.
Rallegrati Regina,
egli era Ulisse.
PENELOPE.
Sei buon pastor Eumete
se persuaso credi
contro quello che vedi.
EUMETE.
Il canuto, l’antico,
il povero, il mendico,
rallegrati Regina, egli era Ulisse.
PENELOPE.
Credulo è il volgo e sciocco,
e la tromba mendace della fama fallace.
EUMETE.
Ulisse, Ulisse io vidi, sì, sì.
PENELOPE.
Relator importuno,
consolator nocivo!
EUMETE.
Io stesso il vidi e’l so.
TELEMACO.
È saggio Eumete, è saggio!
È ver quel ch’ei racconta.
Il comparir sotto mentito aspetto,
sotto vecchia sembianza,
arte fu di Minerva, e fu suo dono.
PENELOPE.
Troppo egli è ver, che gli uomini qui in
terra servon di gioco agli immortali Dei.
Se ciò credi, ancor tu lor gioco sei.
Lasciano ch’arda il foco e agghiacci il gelo;
figlian le cause lor piaceri e mali.
TELEMACO.
Togliti in pace il nero.
EUMETE.
Io lo dirò, ti seguirò.
Scena 5
MINERVA.
Fiamma è l’ira, o gran Dea,
foco è lo sdegno.
Noi sdegnose ed irate,
incenerito abbiam di Troja il Regno.
Offese da un Trojan, ma vendicate!
Il più forte fra Greci ancor contende
col destin, con il Fato:
Ulisse addolorato.
GIUNONE.
Vada, vada il troiano impero
anco in peggio di polvere fugace!
MINERVA.
Dalle nostre vendette
nacquero in lui gli errori;
delle stragi dilette
son figli i suoi dolori.
Convien al nostro Nume, il vindice
salvar, placar gli sdegni del Dio de’salsi flutti.
GIUNONE.
Procurerò la pace
ricercerò il riposo d’Ulisse.
Gran Giove, alma de’Dei,
Dio d’elementi, mente dell’Universo,
inchina le tue grazie a’prieghi miei.
Ulisse troppo errò
troppo, ahi, troppo soffrì:
Tornalo in pace un dì.
Fu divin il voler che lo destò;
Ulisse troppo errò.
GIOVE.
Per me non avrà mai vota preghiera Giuno,
ma placar pria conviensi, lo sdegnato Nettuno.
Odimi, odimi, o Dio del mar:
Fu ministro del Fato Ulisse, il forte
soffrì, vinse, pugnò campion celeste,
Nettun, pace o Nettun! Perdona il suo duolo,
il suo duolo, al mortal ch’afflitto il rese.
Ecco scrive il destin le sue difese;
non è colpa dell’uom se ‚l cielo tuona.
NETTUNO.
Son ben quest’onde frigide,
son ben quest’onde gelide,
ma sentono l’ardor di tua pietà.
Nei fondi algosi ed infimi,
nei cupi acquosi termini,
il decreto di Giove anco si sa.
Contro i Feaci arditi e temerarii,
mio sdegno si sfogò:
pagò il delitto pessimo
la nave che restò.
Viva, viva felice pur,
viva Ulisse sicur!
CORO.
Giove amoroso, fa il ciel pietoso nel perdonar
Benché abbia il gelo,
non men del Cielo
Pietoso è il mar.
Prega, mortal, deh prega,
che sdegnato e pregato.
Un Dio si piega.
MINERVA.
Comanderò la pace, Giove, come a te piace.
Scena 6
ERICLEA.
Ericlea, che vuoi far?
Vuoi tacer o parlar?
Se parli tu consoli,
obbedisci se taci.
Sei tenuta a servir, obbligata ad amar.
Vuoi tacer o parlar?
Ma ceda all’obbedienza la pietà:
non si dee sempre dir ciò che si sa.
Medicar chi languisce,
o che diletto! Ma che inguirie
e dispetto scoprir l’altrui
pensier; bella cosa tal volta è un bel tacer.
È ferita crudele il poter con parole
consolar chi si duole
e non lo far.
Ma del pentirsi alfin
assai lunge è il tacer
più che ‚l parlar.
Bel segreto taciuto tosto scoprir si può,
una sol volta detto celarlo non potrò.
Ericlea che farai? tacerai, tu?
Insomma, un bel tacer mai scritto fu.
TELEMACO.
Troppo incredula!
EUMETE.
Incredula troppo!
TELEMACO.
Troppo ostinata!
EUMETE.
ostinata troppo!
TELEMACO.
È più di vero
EUMETE.
di vero è più
che’l vecchio arciero Ulisse fu.
TELEMACO.
Eccolo che sen viene e la sua forma tiene.
EUMETE.
Ulisse, egli è,
TELEMACO.
Eccolo affè!
ULISSE.
O delle mie fatiche meta dolce e soave,
porto caro amoroso
dove corro al riposo.
PENELOPE.
Fermati cavaliero,
incantator o mago.
ULISSE.
Così del tuo consorte,
così dunque t’appressi
ai lungamente sospirati amplessi?
PENELOPE.
Consorte io sono,
ma del perduto Ulisse.
ULISSE.
Quell’Ulisse son io
delle ceneri avanzo,
residuo delle morti,
degli adulteri e ladri fiero castigator
e non seguace.
PENELOPE.
Non sei tu ‚l primo ingegno che, con nome mentito,
tentasse di trovar commando o regno.
ERICLEA.
Or di parlar è tempo.
È questo Ulisse,
casta e gran donna.
Io lo conobbi all’ora che, nudo, al bagno venne,
ove scopersi del feroce cinghiale,
l’onorato segnale. Loquace femminil garrula
lingua per comando d’Ulisse,
con fatica lo tacque, e non lo disse.
PENELOPE.
Creder ciò ch’è desio m’insegna Amore;
serbar costante il sen comanda onore.
Dubbio pensier, che fai?
La fé negata ai prieghi del buon custode Eumete,
di Telemaco il figlio,
alla vecchia nutrice anco si nieghi,
che il mio pudico letto
sol d’Ulisse è ricetto.
ULISSE.
Del tuo casto pensiero
io so ‚l costume.
So che ‚l letto pudico,
che tranne Ulisse solo altro non vide,
ogni notte da te s’adorna e copre con un serico
drappo, di tua mano contesto, in cui si vede col virginal
suo coro, Diana effiggiata.
PENELOPE.
Or sì ti riconosco,
or sì ti credo,
antico possessore del combattuto core.
Onestà mi perdoni!
Dono tutto ad Amor
le sue ragioni.
ULISSE.
Sciogli la lingua,
Deh, sciogli per allegrezza i nodi!
sciogli un sospir, un ohimè
la voce snodi.
PENELOPE.
Illustratevi o cieli,
rinfioratevi o prati.
Aure gioite!
Gl’augelletti cantando,
i rivi mormorando
or si rallegrino!
Quell’herbe verdeggianti,
quell’onde susuranti
or si consolino.
Giacché sorta è felice, dal cenere Troian,
la mia Fenice.
ULISSE.
Sospirato mio sole!
PENELOPE.
Rinnovata mia luce!
ULISSE.
Porto quieto e riposo!
PENELOPE.
Bramato sì, ma caro!
ULISSE.
bramato sì, ma cara!
PENELOPE.
Per te gli andati affanni
a benedir imparo.
ULISSE.
Non si rammenti
più de’tormenti!
PENELOPE.
Sì, sì, vita, sì, sì!
ULISSE.
Tutto è piacere,
tutto è piacer!
PENELOPE.
Sì, sì, vita, sì, sì!
Fuggan dai petti
dogliosi affetti!
ULISSE.
Sì, sì, core, sì, sì!
PENELOPE.
Tutto è godere!
tutto è goder!
PENELOPE.
Del piacer, del goder
ULISSE.
venuto è il dì.
Sì, sì, vita!
Sì, sì, core, sì, sì!